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Bosnia Erzegovina, la Republika Srpska sceglie il dopo-Dodik: un voto breve che pesa come un verdetto storico

Un’elezione straordinaria, sei candidati e un’ombra lunga: la rimozione di Milorad Dodik apre una nuova fase politica nell’entità serbo-bosniaca. Tra continuità, sfide istituzionali e pressioni internazionali, il risultato del 23 novembre può ridisegnare gli equilibri dell’intera Bosnia Erzegovina

Bosnia Erzegovina, la Republika Srpska sceglie il dopo-Dodik: un voto breve che pesa come un verdetto storico

Milorad Dodik

Nella mattina fredda di Banja Luka, quando la brina si posa ancora sui parabrezza e il fiato esce in nuvole leggere, una fila composta e silenziosa davanti a una scuola racconta un passaggio di consegne che da vent’anni non si vedeva nella Republika Srpska, una delle due entità che compongono la Bosnia Erzegovina. Le persone avanzano lentamente, stringendo documenti e schede elettorali, in un gesto quasi rituale: votano per scegliere chi prenderà il posto di un leader che è stato formalmente rimosso ma continua a incombere sulla vita politica come un’ombra lunga e irrinunciabile. È un voto rapido, straordinario, quasi un lampo, ma destinato ad avere conseguenze che vanno ben oltre la breve durata del mandato.

All’alba di domenica 23 novembre 2025, circa 1,2 milioni di elettori sono chiamati alle urne per scegliere il nuovo presidente della Republika Srpska. Non si tratta di un’elezione ordinaria: il mandato dura meno di un anno e serve solo a completare il ciclo aperto prima della rimozione di Milorad Dodik, il leader che ha dominato la scena politica dell’entità per due decenni e che, nonostante tutto, continua a essere il punto di riferimento centrale della politica serbo-bosniaca. Ma proprio perché il mandato è breve, il significato politico è enorme: questo voto è un test della tenuta del sistema di potere costruito da Dodik e un banco di prova della capacità dell’opposizione di sfidarlo sul terreno simbolico e su quello elettorale.

Sulla scheda compaiono sei nomi, ma la sfida vera è tra due figure che rappresentano mondi opposti. Da una parte c’è Siniša Karan, 63 anni, volto noto del SNSD e uomo di fiducia di Dodik, tanto da esserne considerato uno dei più stretti collaboratori negli anni in cui l’SNSD ha consolidato il suo potere nell’entità e, indirettamente, nella politica complessiva della Bosnia Erzegovina. Dall’altra c’è Branko Blanuša, 56 anni, professore universitario, sostenuto dall’SDS, il partito che per anni ha rappresentato l’opposizione serbo-bosniaca e che cerca, con questo voto, una rivincita politica e simbolica dopo un lungo periodo di marginalità. Attorno a loro, gli altri candidati — Nikola Lazarević, esponente ambientalista, Dragan Đokanović, rappresentante di un progetto di rinnovamento politico, e gli indipendenti Igor Gašević e Slavko Dragičević — entrano nella contesa con programmi più deboli ma comunque significativi per fotografare la frammentazione dell’offerta politica.

La campagna elettorale è stata breve, appena quindici giorni, ma intensissima. Karan ha concentrato il suo messaggio sulla continuità, difendendo le prerogative dell’entità e usando un linguaggio che richiama storicamente l’idea di minaccia esterna proveniente da Sarajevo e dalle istituzioni statali della Bosnia Erzegovina. Ha insistito su stabilità, sicurezza, difesa dell’autonomia e rispetto delle tradizioni politiche costruite negli anni di governo del SNSD. Blanuša, invece, ha scelto un approccio più orientato alla normalizzazione istituzionale: ha parlato di legalità, trasparenza, lotta alla corruzione e fine del monopolio politico del passato, cercando di intercettare soprattutto il voto urbano e quello dei giovani che, più di altre categorie, sentono il peso dell’immobilismo politico.

I giorni che hanno preceduto il silenzio elettorale hanno mostrato come il clima fosse tutt’altro che pacifico. Le accuse reciproche si sono moltiplicate, con il SNSD che ha dipinto Blanuša come un “candidato di Sarajevo”, insinuando che l’opposizione ricevesse sostegno dalle istituzioni statali della Bosnia Erzegovina e dal Rappresentante Alto. Dall’altra parte, l’opposizione ha ridicolizzato quella narrativa, sostenendo che il vero problema non è Sarajevo, ma il sistema chiuso e clientelare che si è sedimentato nella Republika Srpska negli anni della gestione Dodik.

Per comprendere il significato del voto, bisogna tornare alla data cruciale del 6 agosto 2025, quando la Commissione Elettorale Centrale della Bosnia Erzegovina ha rimosso Milorad Dodik dalla presidenza dopo una sentenza definitiva che lo condannava a un anno di reclusione, pena sospesa, e a sei anni di interdizione politica. La colpa imputata a Dodik — aver rifiutato di applicare le decisioni del Rappresentante Alto — ha generato l’ennesima crisi istituzionale nel Paese. Dodik ha definito la procedura illegittima e ha rifiutato di riconoscere l’autorità dell’Alto Rappresentante, ma la decisione è diventata esecutiva. Il parlamento dell’entità ha quindi nominato Ana Trišić-Babić presidente ad interim, annunciando un ritorno alla “normalità istituzionale” e abrogando alcune leggi separatiste che avevano messo a dura prova i rapporti tra la Republika Srpska e le istituzioni statali.

Il processo elettorale è supervisionato da una missione dell’OSCE/ODIHR, guidata da Mátyás Eörsi, presente a Banja Luka con analisti e osservatori per valutare non solo il giorno del voto, ma anche la qualità dell’intera procedura: registri elettorali, media, campagna, complessità del quadro normativo e gestione dei ricorsi. Accanto alla missione internazionale, la coalizione civica “Pod lupom” monitora affluenza e irregolarità, pubblicando aggiornamenti costanti. Questo doppio controllo non è un dettaglio formale: in un Paese come la Bosnia Erzegovina, in cui la sfiducia nei processi istituzionali è un problema storico, ogni revisione indipendente diventa un tassello fondamentale.

Milorad Dodik

Milorad Dodik

La figura di Dodik, pur assente dalla competizione per la prima volta dopo vent’anni, è rimasta la più ingombrante della campagna. Le sue dichiarazioni, diffuse soprattutto attraverso media vicini al SNSD, hanno agitato costantemente il dibattito, insistendo su idee di ingerenza internazionale, pressione politica da Sarajevo e tentativi di “commissariamento” dell’entità. Persino interventi istituzionali, come la presa di posizione del ministro degli Interni della Federazione, Ramo Isak, sono stati interpretati dal SNSD come prova di una volontà di influenzare la campagna.

Il contesto internazionale aggiunge un’ulteriore complessità. Dodik rimane soggetto a sanzioni americane e britanniche, e tra 2024 e 2025 gli Stati Uniti hanno modificato alcune misure, lasciandone però intatto il nucleo centrale. In primavera, l’Alto Rappresentante Christian Schmidt ha disposto il congelamento dei finanziamenti pubblici a due partiti dell’entità, tra cui il SNSD, come strumento di pressione nella crisi politica. Per i sostenitori di Karan, tutto ciò dimostra l’esistenza di una “guerra politica” contro la Republika Srpska; per l’opposizione è invece la prova dell’isolamento in cui la gestione Dodik ha trascinato non solo l’entità, ma l’intera Bosnia Erzegovina.

Il giorno del voto scorre senza incidenti, ma con una tensione sempre percepibile. Fuori dai seggi, alcuni elettori parlano di un voto che “non cambierà nulla”, altri sperano in un’inversione di tendenza. Gli osservatori internazionali si muovono discretamente tra i distretti, mentre i volontari di “Pod lupom” annotano ogni dettaglio. Le prime stime circoleranno dopo la chiusura alle 20, mentre eventuali ricorsi potrebbero prolungare i tempi e alimentare la già cronica sfiducia verso le istituzioni statali.

Il risultato può aprire scenari molto diversi. Una vittoria di Siniša Karan rafforzerebbe il blocco costruito da Dodik, confermando che la base elettorale resta compatta nonostante le vicende giudiziarie del leader. Una vittoria di Branko Blanuša, invece, sarebbe interpretata come un segnale forte, forse il primo vero campanello d’allarme per il SNSD in vent’anni, e aprirebbe spazi per una ricomposizione dell’opposizione in vista delle elezioni generali del 2026. Un risultato incerto, contestato o accompagnato da ricorsi potrebbe invece trascinare la Republika Srpska — e quindi la Bosnia Erzegovina — in un periodo di tensione, con un rischio evidente di allungare la fase di instabilità.

Al di là del risultato immediato, resta il peso della dimensione regionale. I rapporti con Belgrado, l’asse politico con Budapest, la posizione verso Mosca, il ruolo della diplomazia europea: tutto ciò che negli ultimi anni ha rappresentato la rete politica intorno a Dodik continuerà a influenzare anche il futuro presidente. Ma ridurre la politica della Republika Srpska alle dinamiche internazionali sarebbe un errore: molto dipenderà dalla capacità delle istituzioni locali di recuperare credibilità, governare le differenze e rassicurare una popolazione stanca di conflitti identitari che sembrano non finire mai.

Quando, nella notte del 23 novembre, i presidenti di seggio chiuderanno le urne e controlleranno per l’ultima volta i timbri, comincerà il vero confronto politico. Se sarà continuità, significherà che il sistema costruito da Milorad Dodikregge ancora, anche senza la sua presenza ufficiale. Se sarà cambiamento, entrerà in scena un nuovo capitolo della politica serbo-bosniaca. In ogni caso, una cosa appare già evidente: nella Republika Srpska — e quindi nell’intera Bosnia Erzegovina — non basterà più il carisma di un singolo leader. Serviranno numeri, credibilità, legalità e una dose inedita di realismo per arrivare alla scadenza più attesa, quella delle elezioni generali del 2026.

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