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Esteri
23 Novembre 2025 - 17:43
Marco Rubio e Donald Trump
Ginevra chiama Europa: è qui che la diplomazia si muove sul filo sottile tra il cosiddetto “piano Trump” e le linee rosse di Kyiv. Delegazioni di Ucraina, Unione europea e Stati Uniti si ritrovano in un hotel-conference center dal design impersonale, dove una porta automatica scorre, un badge lampeggia, e funzionari in giacca scura attraversano i corridoi con cartelline sottili che però pesano come macigni. Dentro ci sono parole che possono cambiare il destino di un continente: “cessate il fuoco”, “garanzie di sicurezza”, “integrità territoriale”. È il vocabolario con cui si misura la guerra, ma anche il compromesso possibile.
Sul tavolo c’è la bozza americana in 28 punti che la Casa Bianca di Donald Trump ha iniziato a far circolare. Per alcuni è una base negoziale, per altri una proposta che chiede all’Ucraina di cedere troppo e troppo presto. A Bruxelles i 27 preparano una riunione straordinaria per fissare una posizione comune prima che Washington detti il ritmo. Per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il viaggio in Europa ha un obiettivo preciso: ottenere sponde politiche che gli permettano di negoziare senza dover accettare condizioni percepite come punitive.

A Ginevra è arrivata una squadra ad alto tasso politico. Gli Stati Uniti schierano il segretario di Stato Marco Rubio e l’inviato speciale Steve Witkoff; l’Ucraina si affida al capo di gabinetto Andriy Yermak e al responsabile della sicurezza nazionale Rustem Umerov; l’Unione europea punta sui capi di gabinetto Bjoern Seibert e Pedro Lourtie. L’obiettivo è verificare quanto spazio di manovra esiste nel “piano Trump”, capire quanto sia realmente modificabile e preparare i materiali per il confronto politico dei 27 capi di Stato e di governo. Da Washington trapela che l’offerta “non è definitiva”, un segnale minimo ma non irrilevante: significa che la pressione europea e ucraina sta lasciando qualche segno.
Secondo più ricostruzioni, la proposta americana prevede concessioni pesanti: rinuncia formale a parte dei territori occupati, una drastica riduzione delle capacità militari ucraine, la sospensione sine die dell’ingresso in NATO e UE, e un ridimensionamento del sostegno occidentale. È qui che scatta la reazione più dura delle capitali europee. Una pace che lascia l’Ucraina mutilata, disarmata e priva di un percorso euro-atlantico viene considerata l’anticamera di un nuovo conflitto, non la sua soluzione. Da mesi Bruxelles ripete un principio diventato quasi una formula costituzionale: nessun accordo sull’Ucraina senza l’Ucraina, e nessun compromesso che alteri i confini riconosciuti internazionalmente.
In questo quadro, l’Unione europea si prepara a blindare tre capisaldi: sostegno “pieno e continuativo” alla sovranità di Kyiv, una pace “giusta e duratura” fondata sulla Carta ONU, e un rafforzamento delle capacità difensive ucraine perché la deterrenza non sia percepita come escalation ma come condizione della stabilità. I fondi della Ukraine Facility, gli utili derivanti dagli asset russi congelati, il coordinamento industriale per munizioni e sistemi di difesa aerea: sono i mattoni su cui i 27 vogliono costruire una posizione negoziale solida, capace di reggere all’urto del dialogo con Washington.
Per Zelensky il momento è delicatissimo. Nelle sue dichiarazioni pubbliche continua a ripetere che l’Ucraina non accetterà una “capitolazione mascherata”, ma allo stesso tempo non può permettersi di rompere con gli Stati Uniti, il suo principale sostenitore militare. È un equilibrio quasi impossibile: chiedere garanzie reali senza chiudere la porta al confronto, evitare un cedimento che minerebbe la sovranità ucraina e, allo stesso tempo, non mettere a rischio i canali vitali di aiuti occidentali. A Ginevra i suoi delegati lasciano filtrare un messaggio prudente ma chiaro: gli USA sarebbero pronti a inserire elementi più vicini alla visione di Kyiv, ma nessun documento diventerà accordo se l’Ucraina non sarà pienamente coinvolta nella scrittura.
La controversia sul “piano Trump” si concentra soprattutto sull’architettura di sicurezza. Washington immagina una sorta di “Articolo 5 fuori dalla NATO”, cioè un sistema di garanzie bilaterali o plurilaterali non formalizzate nell’Alleanza Atlantica. Ma resta oscuro chi dovrebbe intervenire in caso di aggressione, con quali tempi, con quali obblighi, con quale catena di comando. È il nodo più pesante: una garanzia vaga vale poco più di una promessa, e una promessa senza deterrenza rischia di essere interpretata da Mosca come un via libera a nuovi tentativi di pressione militare.
Proprio da Mosca arrivano segnali interessati: apprezzamenti generici sul fatto che gli Stati Uniti “stiano lavorando a un piano”. A Bruxelles questo viene letto come un campanello d’allarme, perché una proposta accolta positivamente dal Cremlino rischia di essere sbilanciata a favore dell’aggressore. La guerra, però, non è solo diplomazia. La Russia continua i suoi attacchi alle infrastrutture energetiche ucraine mentre osserva le mosse americane, consapevole che un’Ucraina privata di armi e garanzie solide sarebbe un vicino più gestibile.
L’Italia, attraverso il ministro degli Esteri Antonio Tajani, mantiene una posizione lineare: il piano americano può essere un punto di partenza, ma non può essere imposto a Kyiv né può prescindere dalla presenza dell’Unione europea. Roma insiste su un cessate il fuoco credibile, su garanzie di sicurezza reali e su un ruolo europeo pieno nella ricostruzione e nella verifica delle eventuali intese. È una linea che cerca di coniugare fedeltà transatlantica e centralità europea, e che si muove nel solco delle conclusioni del Consiglio europeo.
Il punto è stabilire cosa sia davvero negoziabile e cosa no. La rinuncia ai territori occupati oggi appare incompatibile con il diritto internazionale e con le stesse risoluzioni europee; le garanzie di sicurezza non possono essere un simulacro; le capacità militari ucraine non possono essere ridotte a un livello che trasformerebbe il Paese in un cuscinetto vulnerabile; l’Europa non può essere ridotta al ruolo di notaio; e le tempistiche non possono essere dettate da ultimatum che rischiano di produrre soluzioni fragili. A Ginevra tutto questo si discute con prudenza, ma anche con la consapevolezza che la storia non aspetta.
Dalla riunione svizzera non uscirà un accordo politico, troppo profonde le distanze e troppo sensibili i dossier. Ma potrebbe emergere ciò che oggi serve davvero: una mappa dei punti condivisibili, un linguaggio comune sulle garanzie di sicurezza, un calendario di passi successivi e una cornice politica che permetta a Europa, Ucraina e Stati Uniti di continuare a parlarne. È un risultato modesto, forse. Ma nella diplomazia dei conflitti complessi, togliere la nebbia è già un passo di sostanza.
La posta in gioco riguarda anche i cittadini europei, che al di là delle formule diplomatiche si trovano in un bivio storico. Un’Ucraina forte e protetta riduce il rischio di nuove avventure militari ai confini dell’Unione, preserva la credibilità del diritto internazionale e stabilizza le rotte economiche. Un’Ucraina normalizzata in una neutralità vigilata, invece, aprirebbe una stagione di incertezza in cui la sicurezza europea sarebbe costantemente a rischio. È questo che spiega la durezza con cui le cancellerie europee difendono l’idea di una pace giusta, non semplicemente rapida.
Nei prossimi giorni l’attenzione si sposterà sulla capacità dei 27 di trovare una posizione realmente comune, sulla disponibilità americana a chiarire i meccanismi di garanzia e sul margine negoziale che Kyiv riuscirà a conquistare. Ginevra non è il luogo della firma, ma è il passaggio obbligato in cui l’Europa decide che peso vuole avere, l’Ucraina decide quanto può cedere e gli Stati Uniti misurano quanto sono pronti ad ascoltare. In mezzo, c’è una guerra che continua e una diplomazia che, per una volta, sembra intenzionata a non farsi trovare impreparata.
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