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23 Novembre 2025 - 09:56
Non servono leggende o retorica per capire cosa significhi, per il Canavese, la chiusura definitiva del ristorante di Belmonte. Basta guardare le reazioni delle ultime ore: centinaia di messaggi, tutti intrisi dello stesso sentimento, un misto di dispiacere e rassegnazione. Lo storico ristorante accanto al Santuario non riaprirà più. L’annuncio è arrivato sui social del Santuario, laconico ma inequivocabile.
Il motivo? Sempre lo stesso, sempre quello: la burocrazia, che in Piemonte riesce a essere più coriacea dei muri in pietra del Sacro Monte. L’imprenditore che aveva provato a riaccendere le luci del locale – un anno di trattative, documenti, promesse e telefonate – alla fine ha mollato. “Ha gettato la spugna”, scrivono. Non per mancanza di volontà, ma perché, nel frattempo, i collaboratori che si erano messi in gioco con lui hanno iniziato ad andarsene. Chi può, cerca altrove. E il sogno resta lì, sospeso, come tante cose in questo territorio che vive in apnea tra speranze e autorizzazioni.
La nota del Santuario ringrazia il Comune di Valperga, che “ha fatto l’impossibile”. Sorprende la scelta del tono, così esplicito, quasi esasperato: se anche le istituzioni locali arrivano a parlare di “impresa titanica”, qualcosa non torna. E infatti non torna da anni. Perché Belmonte ha un passato che non si può cancellare solo cambiando le tende e ritinteggiando il bar.
Per mesi, nel 2018, si è parlato del ristorante non per i suoi piatti, ma per i fratelli Vazzana, coinvolti nell'inchiesta e nel processo sulla locale di ‘ndrangheta di Volpiano. Avevano investito 200 mila euro nel locale. Affari deboli, clienti pochi, e allora si tentavano vie alternative: pressioni politiche, intermediazioni opache, persino l’idea di far comprare alla Regione l’intero complesso da una contessa. Boutade? Macché: tutto finito nelle carte dell’inchiesta Platinum, intercettazioni comprese. Un ristorante diventato nodo di una trama che col cibo aveva ben poco a che fare.
E da lì, solo cancelli chiusi, anni di silenzio, promesse a metà. Quando, negli ultimi mesi, dal Santuario era filtrata la voce di una possibile rinascita, qualcuno aveva davvero ricominciato a crederci. “Le trattative sono a buon punto”, assicuravano. Il piccolo punto ristoro improvvisato – un microonde, qualche piatto pronto per i pellegrini – sembrava un segnale. Un modo per dire: stiamo tornando, un passo alla volta.
Oggi quella fioca luce si spegne di nuovo. Non per le ombre del passato, ma per i rallentamenti del presente. La burocrazia, ancora lei, che fagocita tempo, energie e fiducia. Il ristorante non riaprirà. Almeno non con questo imprenditore.
Resta una domanda, semplice e pesante: Belmonte può permettersi un’altra stagione di porte sbarrate? Chi ci sale ogni settimana dice di no. I fedeli, i camminatori, le coppie che lassù si sono sposate, i volontari che tengono vivo il Santuario: a loro non interessa che torni un grande ristorante. Va bene anche un bar. Va bene quasi tutto, purché riapra.
La palla ora è nei piedi dei frati francescani, proprietari dell’immobile. “Si spera che trovino altre soluzioni”, scrivono dal Santuario. È un auspicio che suona come un avvertimento: se non si interviene in fretta, si rischia non solo di perdere un servizio, ma di lasciare sgretolare, pezzo dopo pezzo, un luogo che qui non è solo culto. È identità. È memoria. È comunità.
Belmonte, ancora una volta, aspetta. E il Canavese con lui.
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