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22 Novembre 2025 - 17:45
Torino, Teatro Regio pieno, luci basse, tappeto rosso che sembra quasi respirare. Il 43° Torino Film Festival si apre così, con quella miscela di attesa e nostalgia che solo il cinema sa creare quando la città decide di farsi palcoscenico. Ed è difficile pensare a qualcuno più adatto di Spike Lee per incarnare lo spirito irrequieto di questa edizione: uno che, per sua stessa natura, “in gabbia” non ci è mai voluto stare. Lo dimostra ancora una volta nell’incontro stampa di oggi, dopo aver ricevuto al Regio la Stella della Mole, consegnata dalle mani di Antonio Banderas, anche lui insignito del riconoscimento del Museo del Cinema, pensato per chi nel cinema ha lasciato un segno vero, non di cartapesta.
Ma la prima immagine destinata a restare nella memoria collettiva arriva già prima che si spengano le luci. Perché quest’anno, per la prima volta, il TFF ha istituito una rush line dedicata a chi non aveva il biglietto per la cerimonia d’apertura ma non voleva rinunciare alla possibilità di assistervi. Fin dal mattino, nello spazio davanti al Teatro Regio, si è formata una lunga coda di persone che, sfidando il freddo tagliente, sono rimaste in attesa fino alle 18.30, quando finalmente le porte si sono aperte per occupare i posti rimasti liberi. Sono stati più di 170 i fortunati che sono riusciti a entrare: un numero che dice molto di quanto, per una città come Torino, il cinema resti un’occasione viva e condivisa.
«Siamo contenti di questo successo e di aver dato a così tante persone la possibilità di assistere alla cerimonia del 43Tff e di conoscere dal vivo star importanti che hanno fatto la storia del cinema», sottolineano Enzo Ghigo e Carlo Chatrian, presidente e direttore del Museo Nazionale del Cinema. Una ventina di persone, purtroppo, non ce l’hanno fatta a entrare: per loro, come piccolo gesto di consolazione, è stato offerto un biglietto gratuito per visitare il Museo del Cinema. Anche questo, in un’epoca in cui l’esperienza cinematografica sembra sempre più individuale, è un segnale prezioso: un festival è innanzitutto una comunità.
E proprio di comunità, di cinema come luogo di incontro e di frizione, Spike Lee parla con la sua solita energia indisciplinata. Dal regista di Fa’ la cosa giusta “ce n’è per tutti”, e in effetti oggi non si salva nessuno: Jannik Sinner, Papa Leone XIV, Donald Trump, il neosindaco di New York Mamdami, il cinema europeo e, naturalmente, il suo nuovo film, Highest 2 Lowest, remake libero del capolavoro di Kurosawa del 1963 Anatomia di un rapimento. Nel film, Denzel Washington interpreta David King, mega produttore musicale newyorkese a cui viene rapito il figlio per un riscatto da 17 milioni di dollari: una cifra spropositata che diventa metafora della violenza economica della nuova America urbana.
Poi, all’improvviso, eccolo parlare di Jannik Sinner come farebbe uno zio brioso davanti alla tv. «Per favore, fateglielo sapere: non è vero che sono contro di lui. Non vedo l’ora di incontrarlo e stringergli la mano», dice in apertura, quasi a voler anticipare ogni domanda. «Sinner è un ottimo tennista, non provo altro che amore nei suoi confronti. Mi piace Carlos, sì, ma questo non significa che non mi piaccia Sinner. Amo il bel gioco. Ho una collezione di racchette firmate… vorrei aggiungere la sua». Una richiesta che fa sorridere la sala, ma è proprio in questo sorriso che si rivela l’uomo dietro il regista: diretto, impulsivo, appassionato.
Il racconto cambia tono quando evoca il suo incontro con Papa Leone XIV in Vaticano, avvenuto solo una settimana fa. «Quando mi è arrivato l’invito pensavo fosse uno scherzo, un messaggio fake», confessa. Poi, la scena – quasi un cortometraggio nella memoria – della maglia dei Knicks personalizzata “Pope Leo” con il numero 14, offerta al Pontefice: «Quando l’ho tirata fuori, ho visto che sorrideva. Ho capito che si era creato un feeling immediato».
Sulla politica americana, invece, Lee si fa più scuro. Alla domanda sul futuro dell’America con Donald Trump, alza gli occhi al cielo: «Mi viene in mente solo un titolo di Peter Weir: Un anno vissuto pericolosamente». E sul sindaco Mamdami, con una punta di orgoglio: «L’ho votato e tutti dicevano che New York si sarebbe svuotata. Non se n’è andato nessuno. Vedremo».
E come sempre, inevitabile, ritorna a Denzel Washington, suo alleato di lungo corso: «Denzel dice che per diventare qualcuno devi fare o aver fatto qualcosa di folle. Quando dissi a mio padre che volevo fare il regista, mi disse che ero matto. Ma era il mio desiderio più grande. Ora sono professore alla New York University, alla Tisch School of the Arts… e nessuno può licenziarmi». Un sorriso, e la sala segue il ritmo della sua voce, che sembra ancora quella di un ragazzino del Brooklyn più autentico.
Dalla potenza di Spike Lee all’intimità sospesa di Eternity, film d’apertura del festival: un salto di tono che racconta bene l’orizzonte vastissimo di questa 43ª edizione. Il film di David Freyne parte da una domanda che ha il sapore di una puntura allo stomaco: chi sceglieresti, tra la persona con cui hai condiviso la tua vita e il tuo primo grande amore? Una scelta già difficile da vivi, figurarsi dopo la morte, quando il tempo non può più essere rinegoziato. La protagonista Joan, interpretata da Elizabeth Olsen, ha una settimana per decidere: con lei, nel cast, Miles Teller, Callum Turner, Da’Vine Joy Randolph e John Early. L’aldilà immaginato dal regista è un luogo burocratico, quasi aziendale, dove ai defunti viene offerta “un’eternità su misura”… ma solo dopo aver preso la decisione definitiva. Freyne rivendica la volontà di rifarsi alle commedie romantiche del passato, alla Billy Wilder, pur mantenendo una sensibilità moderna e tagliente. «Il film è un dibattito sulla strada non intrapresa», spiega. «Girare un film sull’aldilà mi ha fatto riflettere sulle nostre vite. Sono troppo brevi. È il nostro destino».
In sala, il pubblico alterna risate leggere a momenti di sospensione quasi dolorosa: il film è una commedia, sì, ma attraversata da un vento malinconico che resta addosso a lungo.
Poi il festival cambia di nuovo pelle, come sempre. Spunta Sergio Castellitto, che presenta in anteprima mondiale Zorro, tratto dall’opera teatrale scritta da Margaret Mazzantini nel 2004. Castellitto racconta di essere stato “folgorato” dalle parole della moglie, di quelle frasi piene di immagini che sembrano chiedere di essere trasformate in cinema. Parla dell’attore come di un clochard, un viandante che vaga di provincia in provincia, vive di inadeguatezza e si riscatta solo quando si accendono le luci della sala. «È venuto fuori il racconto di una doppia solitudine», dice, «quella dell’artista e quella del personaggio».
E poi tesse un elogio affettuoso di Torino, definendola «una città unica», e del festival, che considera «emotivo, necessario, prezioso», diventato più forte negli ultimi due anni grazie al lavoro del direttore Giulio Base e del presidente Enzo Ghigo. «Per il cinema – avverte – questo è un momento delicatissimo. Non va dimenticato».
Tra le opere in concorso spicca anche il delicatissimo esordio della regista slovena Ester Ivakič, dal titolo già poetico e inquieto Ida who sang so badly even the dead rose up and joined her in song. Ambientato nel Prekmurje, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, racconta l’infanzia di Ida, interpretata dalla giovanissima Lana Marić, alle prese con la perdita, la solitudine, la soglia invisibile che separa l’infanzia dall’adolescenza. Il film naviga in uno spazio fragile tra immaginazione e realtà, ispirato al romanzo di Suzana Tratnik, con la fotografia di Rok Kajzer Nagode e la sceneggiatura cofirmata da Nika Jurman. La regista spiega di aver voluto mostrare «lo spazio tra la leggerezza quotidiana e l’ombra di una perdita inevitabile»: un territorio emotivo che a Torino sembra risuonare perfettamente con il pubblico.
Quando si esce dalle sale del Massimo o dal Centrale, tra le voci e i passi che rimbalzano sulle pietre umide della sera, resta addosso una sensazione precisa: il Torino Film Festival è un organismo vivo. Respira, cambia forma, si allarga, accoglie. È un luogo dove un Premio Oscar può chiedere la racchetta di Sinner, un Papa può sorridere davanti a una maglia dei Knicks, una bambina slovena può cantare così stonata da risvegliare i morti e un amore mancato può diventare eterno. È un festival che non si limita a proiettare film, ma costruisce una comunità che, per qualche giorno, sceglie di guardare il mondo insieme, nel buio di una sala, lasciandosi attraversare dalla luce che arriva dallo schermo.
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