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La violenza riscrive i geni: il trauma resta inciso nel Dna delle donne

Un progetto dell’Istituto Superiore di Sanità rivela che oltre la metà delle vittime sviluppa disturbi post-traumatici e che perfino i minori che assistono alle aggressioni riportano profonde cicatrici psichiche ed epigenetiche. Lo studio EpiWE apre la strada a interventi di prevenzione personalizzati

La violenza riscrive i geni: il trauma resta inciso nel Dna delle donne

La violenza riscrive i geni: il trauma resta inciso nel Dna delle donne

La violenza di genere non passa, non evapora, non si dissolve col tempo. Resta addosso. Resta nei ricordi, nella memoria emotiva, nella quotidianità che tenta di tornare normale ma non ci riesce. E — come dimostrano ora le prime ricerche scientifiche italiane su larga scala — resta perfino nei geni delle donne che l’hanno subita. Perché il trauma, quando esplode dentro una vita, non lascia soltanto lividi o fratture: lascia una traccia biologica, una sorta di cicatrice invisibile che continua ad agire anche anni dopo.

Secondo i primi risultati del progetto EpiWE – Epigenetica per le donne, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) e finanziato dal Ministero della Salute, oltre la metà delle donne che hanno subito violenza presenta ancora, a distanza di anni, un disturbo post traumatico da stress. Un quarto convive con sintomi depressivi, un terzo è esposto a un alto rischio di rivivere la violenza in nuove relazioni. Numeri duri, che parlano da soli. E che raccontano un fenomeno ancora largamente sommerso, diffuso, difficile da intercettare nelle sue conseguenze più profonde.

Il progetto è partito grazie alle prime cento donne che hanno accettato di donare un campione di sangue, consentendo agli scienziati di indagare l’impatto della violenza sull’attività dei geni. Attraverso una collaborazione con la Regione Puglia, EpiWE è stato esteso anche ai minori che hanno assistito alla violenza domestica: vittime indirette, ma pur sempre vittime, perché ciò che vedono, sentono, subiscono in silenzio lascia segni altrettanto profondi.

L’Iss spiega che le informazioni oggi disponibili sono state raccolte su 76 donne vittime di violenza, mentre il resto del campione è servito come controllo. Per farlo è stato utilizzato EpiWEAT, un questionario elettronico innovativo, tradotto anche in inglese, francese, spagnolo e tedesco, per raggiungere le donne straniere e facilitare il lavoro dei mediatori culturali. I dati saranno poi incrociati con le analisi dei campioni biologici, alla ricerca di quelle “cicatrici epigenetiche” sul Dna: non alterazioni della struttura dei geni, ma modificazioni della loro funzionalità, impronte molecolari che raccontano un trauma rimasto inciso in profondità.

violenza donne

Al momento il progetto coinvolge Lazio, Lombardia, Campania, Puglia e Liguria, regioni in cui è ancora possibile partecipare e donare un campione per contribuire alla ricerca.

I numeri emersi finora sono impressionanti. Oltre la metà delle donne presenta forme gravi di Ptsd: il 27% ha una diagnosi conclamata, il 28,4% soffre di Ptsd complesso. Il 23% mostra una sintomatologia depressiva persistente, mentre il 32% si trova in quella zona d’ombra che gli esperti chiamano “alto rischio di revittimizzazione”. È un profilo che sfata molti stereotipi: più della metà delle donne ha un livello di istruzione pari o superiore al diploma e il 34% ha un’occupazione stabile. L’82% è di cittadinanza italiana.

Anche il profilo dell’aggressore è chiaro, purtroppo monotono nella sua ricorrenza: nel 97% dei casi è un uomo e nel 71% dei casi l’autore è il partner o l’ex partner. La violenza — fisica, sessuale, psicologica o economica — è quasi sempre ripetuta nel tempo: accade nel 90% dei casi.

“La violenza domestica lascia tracce epigenetiche che modificano l’espressione dei geni, cioè la loro attività, senza alterare la sequenza del Dna”, spiega Simona Gaudi, responsabile del progetto per l’Iss. “Analizzare queste modificazioni potrebbe permetterci di prevedere gli effetti a lungo termine della violenza e sviluppare interventi preventivi personalizzati, prima che si manifestino patologie croniche”.

Accanto a EpiWE e a EpiWEAT, il gruppo di ricerca ha elaborato anche un secondo strumento digitale, EpiCHILD, pensato per bambini e adolescenti. È stato somministrato finora a 26 minori tra i 7 e i 17 anni che hanno assistito a violenza domestica, arruolati in Puglia nell’ambito dello studio ESMiVA – Esiti di Salute nei Minori esposti a Violenza Assistita. I primi risultati confermano ciò che psicologi e operatori denunciano da anni: quasi l’80% dei minori ha vissuto come evento traumatico l’aver assistito a violenze fisiche tra i genitori. Tra loro sono già stati riscontrati casi di Ptsd e depressione. Il 42,3% proviene da famiglie con genitori separati o divorziati e nel 92,3% dei casi l’aggressore è il padre.

“I risultati – conclude Gaudi – confermano l’urgenza di introdurre screening sistematici nelle strutture sanitarie e nei servizi sociali, costruire interventi multidisciplinari integrati tra sanità, scuola e servizi sociali e sviluppare protocolli di prevenzione personalizzati basati su evidenze scientifiche. Il progetto proseguirà con follow-up programmati per monitorare l’evoluzione dei sintomi e creare una base dati che supporti le ricerche sul trauma transgenerazionale”.

Un percorso lungo, difficile, ma necessario. Perché a guarire dal trauma non bastano il tempo o la forza di volontà. Servono conoscenza, prevenzione, strumenti scientifici e politiche che sappiano vedere ciò che la violenza lascia davvero: segni profondi, nel corpo e nella mente. E ora, come dimostrano questi studi, perfino nei geni.

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