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22 Novembre 2025 - 17:13
Il consigliere comunale Massimiliano De Stefano e Don Arnaldo Bigio
Un investimento del Comune di 145 mila euro. Un protocollo firmato tra Comune di Ivrea, Consorzio In.Re.Te., Caritas Diocesana, Fondazione Istituzione Canonico Cuniberti e Associazione Mastropietro. Un obiettivo dichiarato: costruire una rete di accoglienza capace di sostenere le persone più fragili del territorio, in un momento storico in cui la povertà non è più un’eccezione ma un fenomeno diffuso. Con una delibera approvata nei giorni scorsi, la Giunta guidata da Matteo Chiantore tenta di dare una risposta strutturale a un problema che negli ultimi anni si è gonfiato fino a superare ogni previsione.
L’aumento dei cosiddetti “nuovi poveri”, rilevato anche dal rapporto Caritas 2024, e l’emergenza esplosa in primavera con la chiusura del dormitorio “Santo Bambino” hanno imposto un’accelerazione che questo protocollo prova a trasformare in un progetto organico e duraturo.
Tutto nasce da una realtà che gli operatori sociali conoscono bene: famiglie senza più un reddito sufficiente, persone espulse dal mercato degli affitti, lavoratori stranieri impiegati come manodopera e privi di legami familiari, giovani madri sole, uomini senza dimora che alternano lavori saltuari e periodi di marginalità. Un insieme di fragilità che fino a oggi veniva gestito con interventi puntuali, spesso emergenziali, e che ora, grazie al protocollo firmato da Patrizia Maria Gianna Merlo per il Consorzio, Fiorenzo Bianco per la Caritas, don Silvio Faga per la Fondazione Cuniberti ed Egidio Costanza per l’Associazione Mastropietro, prova finalmente a trovare un metodo condiviso.
Il caso che più di ogni altro ha mostrato la debolezza del sistema è stato la chiusura improvvisa della struttura di via Varmondo Arborio, dove vivevano stabilmente una trentina di persone. Lì, dove l’accoglienza rappresentava l’ultimo gradino prima di finire in strada, un intervento di ristrutturazione ha obbligato tutti a fare le valigie da un giorno all’altro.
Comune, Caritas e Consorzio si sono trovati a improvvisare soluzioni temporanee pur di non lasciare nessuno fuori, mentre la Fondazione Cuniberti si è impegnata a mettere mano all’edificio e a ripensarne l’utilizzo. Ed è proprio in quel momento che si sono poste le basi dell’accordo, che stabilisce come riaprirà lo stabile e con quali funzioni.
Il protocollo è un documento dettagliato che fissa responsabilità e impegni. La Fondazione Cuniberti mette a disposizione l’immobile di via Arborio e si impegna a completare i lavori secondo il cronoprogramma. A fine ristrutturazione, la struttura ospiterà otto posti letto per uomini soli, due unità abitative da quattro posti ciascuna per donne e mamme con bambini, e otto ulteriori posti in alloggi indipendenti destinati ad accoglienze temporanee. La riorganizzazione, prevista in diverse fasi tra il 2026 e il 2027, stabilisce una progressiva riattivazione degli spazi, con il trasferimento del dormitorio maschile oggi situato in via Peana.

Fiorenzo Bianco Caritas Ivrea
La Caritas Diocesana di Ivrea, accanto alla Fondazione, garantirà la disponibilità di ulteriori alloggi già attivi in città: in via Peana, vicolo San Savino e piazza Duomo, dove sono presenti posti per uomini, donne e anche per famiglie. Oltre agli spazi, la Caritas assicura la distribuzione dei pasti, le borse alimentari, la presenza dei volontari e la copertura delle utenze e delle manutenzioni ordinarie. Il Consorzio In.Re.Te. avrà invece un ruolo decisivo nella valutazione degli inserimenti e nella gestione dei percorsi individuali, coordinandosi con l’Associazione Mastropietro e con gli operatori comunali per garantire un sostegno educativo e un progetto di reinserimento sociale che non sia un semplice parcheggio ma un vero percorso verso l’autonomia.
Il ruolo centrale nella quotidianità sarà proprio dell’Associazione Mastropietro, che dal 1984 lavora nel contrasto alla marginalità. L’associazione coordinerà le aperture e le chiusure del dormitorio, la vigilanza, il rapporto con gli ospiti e tutti gli interventi di accompagnamento educativo. Dal dormitorio aperto dalle 18 alle 8 tutti i giorni dell’anno, alle unità abitative destinate alle accoglienze temporanee, fino ai due posti emergenziali attivabili tramite il pronto intervento sociale, ogni passaggio sarà seguito da operatori incaricati di monitorare, affiancare e guidare le persone accolte.
Il Comune di Ivrea mette sul piatto 145 mila euro per i lavori di ristrutturazione dell’edificio di via Arborio e rinuncia a chiedere indennizzi o rimborsi, salvo interruzioni gravi del servizio o mancata realizzazione dell’opera. L’erogazione dei fondi avverrà in tre momenti: il 50% alla firma della convenzione e il resto solo dopo la rendicontazione completa delle spese e la verifica dell’effettiva disponibilità dei posti, come previsto dal cronoprogramma.
Il protocollo ha una durata di dieci anni e prevede una revisione annuale: un dettaglio che testimonia la volontà di non costruire una risposta rigida, ma un sistema capace di adattarsi all’evoluzione del fenomeno. Perché la povertà, oggi, non è la stessa di ieri, e potrebbe non essere quella di domani.
L’impressione, leggendo il testo, è che la città abbia finalmente preso coscienza del fatto che l’accoglienza non è un capitolo da aprire solo quando scoppia un’emergenza, ma un servizio essenziale come la scuola, la sanità o il trasporto pubblico. E che le fragilità, se non vengono sostenute, non scompaiono: semplicemente si trasformano in qualcosa di più grande e più difficile da gestire.
Questo protocollo, nelle intenzioni dei firmatari, è il tentativo di invertire la tendenza. Di costruire un sistema stabile dove prima c’erano soltanto soluzioni temporanee. Di trasformare una crisi, quella del “Santo Bambino”, in un’occasione per ripensare il modo in cui la città si prende cura di chi non ha altro che una valigia o un sacchetto di plastica in mano. E di ricordare, almeno una volta, che una comunità si giudica anche – e soprattutto – da come protegge chi non ha protezioni.
Cos’era successo a maggio
A maggio, a Ivrea, è successo qualcosa che in pochi hanno voluto guardare come avrebbe meritato. Una cosa piccola, silenziosa, senza sirene. Una cosa che succede solo agli ultimi, e proprio per questo quasi mai diventa notizia da prima pagina. È successo che un luogo che si chiama Santo Bambino — nato nel 2014 dalla visione di accoglienza condivisa di don Arnaldo Bigio e don Silvio Faga, pensato come residenza autogestita per chi non aveva più nulla — si è svuotato. Lentamente, giorno dopo giorno. E quando è arrivata l’ultima mattina, dentro erano rimasti in due. Due soli, in un edificio che nei mesi precedenti aveva ospitato circa trenta persone, forse di più, secondo alcune testimonianze.
La porta era aperta, ma non per accogliere. Era aperta per far uscire. E loro avevano le mani dentro ai sacchi, come si fa quando si deve andare via senza disturbare nessuno. Due uomini che non avevano più l’età né la forza per ricominciare ogni volta da zero, in un luogo che avrebbe dovuto essere un riparo, e che negli ultimi tempi era diventato invece sempre più instabile: la caldaia rotta, l’acqua gelida, docce fatte stringendo i denti perché nessuno voleva chiedere un favore.
Uno di loro aveva provato a raccontarsi. Non una lunga storia, solo poche frasi, dette come si dice qualcosa che non serve più a niente. «Lavoravo in Spagna… poi l’azienda ha chiuso… sono tornato… il Covid… a 62 anni chi ti prende?». Non c’era rabbia nella sua voce. Solo la stanchezza di chi non chiedeva più ciò che sapeva non sarebbe mai arrivato. L’altro, da tempo, aveva smesso persino di parlare: un silenzio pieno, pesante, di quelli che diventano una difesa.
Avevano chiesto qualche giorno in più. Non un mese, non un miracolo. Solo qualche giorno per arrivare all’11 maggio, quando — forse — avrebbero potuto entrare in una casa che avevano trovato con fatica. La risposta era stata negativa. Un «no» secco, senza margine: «Se non ve ne andate, chiamiamo la Questura». Una frase che, per due uomini che hanno già perso troppo, pesa come una condanna.
In quel momento avevano preso il telefono e chiamato il consigliere comunale Massimiliano De Stefano, l’unico che in quei giorni li aveva guardati come persone e non come problemi. De Stefano era arrivato, li aveva ascoltati, li aveva convinti ad andare via. Per loro era stato trovato un riparo temporaneo a Borgofranco: una soluzione a metà, una di quelle che non risolvono ma almeno evitano il gelo della notte. De Stefano parlava, loro annuivano. Non per convinzione, ma per assenza di alternative.
Tutto intorno, il silenzio. Un silenzio cominciato il 14 febbraio, con una lettera firmata da don Arnaldo Bigio, in qualità di presidente dell’Associazione L’Orizzonte, che comunicava che la struttura doveva essere «totalmente libera entro il 25 aprile» per «improrogabili lavori di ristrutturazione e riorganizzazione dell’accoglienza». Una lettera che avrebbe dovuto aprire una discussione pubblica, un confronto, una pianificazione. E invece: nulla. Per settimane nessuno ha detto nulla. Nessuno ha spiegato nulla. Nessuno ha predisposto un vero piano alternativo.
La scadenza si avvicinava, loro contavano i giorni, e tutt’intorno il vuoto. Nessun elenco ufficiale degli ospiti, nessuna mappatura delle situazioni, nessuna strategia condivisa. Solo il passaparola, l’autogestione, l’adattarsi come si poteva.
Quando la notizia è uscita, la città si è divisa tra accuse e difese. Comunicati contro comunicati, responsabilità rimpallate, interpretazioni opposte della stessa vicenda. Ma mentre la politica litigava, dentro il Santo Bambino accadeva qualcosa di infinitamente più semplice: una casa si stava spegnendo. Letteralmente. Con l’acqua gelida e con chi ci viveva che cercava comunque di restare dignitoso fino all’ultimo giorno, finché anche l’ultimo giorno è arrivato.
Il Santo Bambino era nato da un’idea bella, fragile, umana. Don Arnaldo Bigio e don Silvio Faga lo avevano immaginato come una casa condivisa, un luogo dove nessuno sarebbe rimasto solo. È durato, è cresciuto, ha aiutato. Per anni ha retto sulle spalle di volontariato, solidarietà, qualche contributo sporadico, e sulla forza stessa degli ospiti. Ma nel tempo nessuno ha più avuto il tempo, la possibilità o la volontà di proteggerlo davvero.
A maggio una porta si è chiusa e con essa tutti i ritardi, le omissioni, le mezze verità, le difese istituzionali. E soprattutto i silenzi. Quelli che fanno più male.
È la sensazione che chi ci viveva dentro sia stato lasciato scivolare via...
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