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Movicentro di Ivrea: resa totale. Il barista toglie i tavoli

Degrado, violenza, zona rossa inutile: Adriano Vaglio smantella il Buffet della stazione. “Qui ho paura, nessuno fa niente”.

Movicentro, resa totale: il barista toglie i tavoli

Adriano Vaglio

«Sto pensando di togliere tutti i tavoli e tutte le sedie».
È una frase che pesa come una lapide. A pronunciarla è Adriano Vaglio, titolare del Buffet della stazione, uno di quei volti che si vedono ogni giorno dietro il bancone, a macinare ore, a scambiare quattro chiacchiere con pendolari e passanti, a tenere insieme – come può – quel minimo frammento di normalità che dovrebbe essere garantito in un nodo ferroviario. Ma qui la normalità è diventata un’eccezione. E mantenere un tavolo appare ormai un lusso insostenibile.

«Ne avevo venti, ne ho lasciati otto. Prima li ho tolti fuori, ora li tolgo anche dentro», dice indicando il vuoto attorno. «Spiace, perché siamo una stazione. Qui arrivano persone che lavorano, che aspettano il treno, che si siedono, aprono il portatile. Ma adesso la gente ha paura. E cosa devo farci?».

Paura. Una parola che torna come un martello. E non è la paura astratta, da dibattito politico o da post sui social. È la paura concreta: quella che fa evitare un caffè, che fa guardare dietro le spalle, che spinge un commerciante a smantellare ciò che dà senso al proprio lavoro. Perché al Movicentro, ormai, è sempre lo stesso film.

«Sempre uguale. Sempre», ripete Adriano come un disco rotto. «Sembra quasi che a Ivrea si siano dimenticati di me e dei miei problemi».
Il racconto è preciso, dettagliato, quasi cronachistico: «Il venerdì pomeriggio è il momento peggiore. Gruppi di ragazzi extracomunitari aspettano che escano le ragazze da scuola. Ogni tanto scoppia una zuffa, una scazzottata. Mercoledì scorso c’era una pattuglia. Ma cosa vuoi che facciano?».

E dire che il Movicentro è zona rossa: una definizione che sulla carta dovrebbe incutere timore, garantire ordine, tenere pulita l’area. Nella pratica, invece, è semplicemente una fascia urbana dove tutto sembra ancora possibile, dove la presenza costante delle forze dell’ordine non riesce – o non può – arginare una situazione che degenera giorno dopo giorno.

I numeri lo confermano. Nei primi sei mesi di applicazione del Dacur, il Divieto di accesso urbano, sono state controllate 3.583 persone, con 57 ordini di allontanamento: 21 destinati a persone con precedenti per droga, 10 per reati contro la persona, 19 per reati contro il patrimonio. Numeri importanti, sì, ma che raccontano solo una parte della storia. Perché ciò che resta dopo gli interventi è quasi sempre identico a ciò che c’era prima.

Buffet

E gli episodi degli ultimi mesi lo dimostrano con una chiarezza che non lascia spazio ai dubbi. A fine novembre, per esempio, un uomo di 37 anni è stato arrestato con in tasca hashish, crack, cocaina e persino un bilancino. A metà ottobre, durante una delle tante operazioni congiunte, la polizia municipale ha identificato ventitré persone e sequestrato quasi sette grammi di hashish tra la stazione, il sottopasso e il deposito bus. Ad agosto, nel pieno della zona rossa, è arrivata la coltellata al volto in pieno giorno: dodici allontanamenti in ventiquattr’ore e la certezza che l’area continui a ribollire sotto la superficie.

Adriano queste cose le vede. Le vede tutte. «Ogni tanto ne portano via qualcuno, ma poi ritornano. Non è finito niente. È come prima».
Una frase che descrive meglio di qualunque comunicato la percezione dei cittadini.

Si sfoga Adriano e racconta scene che chiunque frequenti la stazione ha visto almeno una volta. Gruppi fermi agli angoli. Ragazzi che urlano al telefono. Qualcuno che litiga. Qualcuno che chiede soldi. Altri che non hanno di meglio da fare che sedersi sul gradino del sottopasso e restare lì per ore, immobili come pietre.
«Si siedono nel dehor con i cani e stanno lì, tutto il giorno», dice Adriano. «Domenica pomeriggio c’eravamo io, i dipendenti e loro».

La verità è che il Buffet non è un bar qualsiasi. Dovrebbe essere un presidio sociale, un luogo di passaggio, un filtro tra chi arriva e chi parte. Oggi è un avamposto di resistenza civile, dove si cerca disperatamente di tenere aperta una parvenza di vivibilità.

A ricordare quanto sia fragile questa parvenza c’è anche la storia del furto-lampo delle sigarette di qualche mese fa: sei giovani, una porta sfondata, merce per duemila euro arraffata in meno di un minuto, e poi la fuga sul treno delle 20.40 per Chivasso. Azione studiata, rapida, senza timore di telecamere o controlli. Succede anche questo, nel cuore della zona rossa.

Adriano allarga le braccia come chi non ha più risposte.
«Qualcuno mi dice che arrivano da Torino. Secondo me ci sono troppe cooperative che ospitano richiedenti asilo in Canavese. Troppa gente in giro. Il territorio non può contenerne così tanta. Lo so perché chi si occupa di loro viene qui a fare gli abbonamenti del bus urbano. Fanno i biglietti e poi passano qui tutto il giorno. Non hanno altro posto dove stare».

Non cerca formule diplomatiche. Parla come parla chi vive il problema sulla propria pelle.
«L’Amministrazione comunale ha interesse a non parlarne. Si vergogna. Ci vuole un’Amministrazione che ha il coraggio di dire basta».

Dietro lo sfogo c’è qualcosa di più profondo e più inquietante: la sensazione che Ivrea non voglia vedere ciò che ha davanti agli occhi, che la politica si limiti a dichiarazioni e protocolli, mentre la realtà – quella vera, quella quotidiana – peggiora a vista d’occhio.

«Adriano ha tutte le ragioni di questo mondo – commenta il consigliere comunale Massimiliano De Stefano –. L’Amministrazione dovrebbe agire ieri, non domani. In questi ultimi due anni mi sono battuto con tutte le mie forze per un presidio permanente legato a una qualsiasi forza dell’ordine, a cominciare dalla Polfer. L’Amministrazione comunale ha chiesto l’uso dei locali della vecchia stazione per un ufficio turistico o qualcosa del genere, ma ci va del tempo, e sarà troppo tardi…».

Insomma, il Movicentro resta una ferita aperta. E mentre carabinieri e polizia intensificano i controlli, mentre la Prefettura proroga la zona rossa, mentre i comunicati parlano di “legalità ripristinata”, Adriano toglie i tavoli.
Li toglie davvero. Uno dopo l’altro. Come si svuota una barca che fa acqua da tutte le parti.

E la verità amara è che se un bar non riesce più a permettersi dei tavoli, allora il problema non è il bar.
Non è il commerciante. È la città. È la politica.
È un sistema che continua a prorogare misure straordinarie senza risolvere nulla, lasciando ai commercianti la responsabilità di difendere da soli pezzi di città fuori controllo.

«Non è cambiato niente», ripete Adriano, e mentre lo dice guarda quel “pezzo” che si sgretola davanti ai suoi occhi, con una domanda che resta lì, sospesa, inevitabile.

Fino a quando dovrà essere lui – un barista – a difendere la stazione?

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