AGGIORNAMENTI
Cerca
Attualità
21 Novembre 2025 - 17:02
Fabrizio Bertot
Era nata come una querela, l’ennesima nel panorama politico-giudiziario, ma si è presto trasformata in qualcosa di molto diverso. Nel 2022 Fabrizio Bertot, ex sindaco di Rivarolo Canavese, ex europarlamentare e oggi coordinatore provinciale dei Fratelli d'Italia, decide di denunciare Giuseppe Legato, cronista di giudiziaria de La Stampa, accusandolo di averlo diffamato in un articolo dedicato alle tensioni interne alla destra e a margine del processo per scambio elettorale politico-mafioso che vedeva imputato l’ex assessore regionale Roberto Rosso.
In quel pezzo venivano riportati passaggi dell’arringa del difensore, in cui comparivano i riferimenti agli incontri di Bertot con esponenti della ‘ndrangheta e al fatto che fosse stato indagato nel maxi-processo Minotauro, indagine poi archiviata. Una frase in particolare, quella che ricordava proprio la sua posizione nell’inchiesta, non era stata gradita all’ex eurodeputato, che l’aveva ritenuta non solo impropria ma tale da danneggiare la sua reputazione.
Quella denuncia, però, non ha avuto l’effetto sperato. Il pubblico ministero che ha esaminato il fascicolo, Paolo Toso, magistrato della Direzione Distrettuale Antimafia, non solo ha ritenuto infondata la querela contro il giornalista, riconoscendo che quanto pubblicato corrispondeva a fatti veri e riscontrabili, ma ha ravvisato la possibilità che l’ex politico avesse accusato Legato pur sapendolo innocente. Conclusione che ha portato all’apertura di una nuova indagine, questa volta a carico dello stesso Bertot, per calunnia.
Il processo ha attraversato due gradi e la decisione è stata netta. Prima il Tribunale, poi la Corte d’Appello di Torino, con presidente Calo Gnocchi e relatrice Luisa Ferracane, hanno confermato la condanna: un anno e quattro mesi di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in sede civile e alla copertura delle spese processuali sostenute dal giornalista, assistito dall’avvocata Maria Teresa Legato. Una doppia conforme che rafforza il giudizio emesso in primo grado e che rappresenta un evento tutt’altro che comune nel panorama giudiziario italiano. Le condanne per calunnia derivanti da querele temerarie contro giornalisti sono rarissime, al punto che in Italia se ne contano meno di una manciata negli ultimi anni.
La vicenda assume un valore particolare anche per il contesto in cui è maturata. Bertot, figura politica nota e non estranea a pagine delicate della storia recente del Canavese, era stato coinvolto nell’inchiesta Minotauro, che nel 2012 aveva portato allo scioglimento del consiglio comunale di Rivarolo per infiltrazioni mafiose.
L’archiviazione della sua posizione non ha eliminato il peso pubblico di quell’indagine, né il suo inserimento nelle cronache giudiziarie dell’epoca. Per questo la frase contestata, pur scomoda, era corretta e verificabile. E il tentativo di colpire il cronista ha finito per produrre l’effetto opposto: invece di mettere in discussione la responsabilità giornalistica, il procedimento ha certificato che l’articolo non conteneva alcuna falsità.

Dopo la sentenza di primo grado, Ordine dei Giornalisti, sindacati di categoria e associazioni per la tutela della libertà di stampa avevano sottolineato l’importanza del pronunciamento. Non solo perché ribadisce il ruolo della stampa nel documentare fatti di rilevanza pubblica, ma perché scoraggia l’uso distorto della querela come strumento intimidatorio. La conferma in appello rafforza questo messaggio e segna un precedente rilevante in tema di tutela della cronaca e di responsabilità di chi tenta di usarla come bersaglio.
Ora resta da capire quali saranno le prossime mosse dell’ex europarlamentare. La sensazione è che questa storia, più che una semplice battaglia personale, sia diventata un caso emblematico di come il rapporto tra politica, informazione e giustizia possa ribaltarsi completamente quando la verità dei fatti viene messa alla prova davanti a un giudice.
In questo caso, a perdere non è stato il giornalista finito nel mirino della querela, ma chi quella querela l’aveva costruita. E a guadagnare, indirettamente, è stata la libertà di informazione, che ne esce più forte proprio perché, per una volta, le accuse infondate non sono state lasciate cadere, ma hanno trovato una risposta netta, chiara e definitiva.
Giornalista professionista, lavora a La Stampa dal 2004. Ha seguito dal 2011 le principali indagini sulla ‘Ndrangheta in Piemonte e Valle d’Aosta e i relativi processi. Premio Igor Man (2016), è autore di due docu-film per il sito lastampa.it: Aspro(Pie)monte sull’infiltrazione della criminalità calabrese nella regione transalpina (2015) e Gli Uomini d’oro di Biancaneve, reportage su alcuni dei principali profili di broker del narcotraffico legati ai cartelli calabresi che “ogni anno contribuiscono ad alimentare il corrispondente di una manovra finanziaria” (2017). Iscritto al centro di giornalismo d'inchiesta Investigative Reporting Project Italy (IRPI), dal 2016, ha collaborato con Giulio Rubino, Cecilia Anesi e Juan Carlos Lezcano (ABC) all'inchiesta transnazionale sul broker di cocaina Nicola Assisi. Ha scritto per Panorama e collabora anche con Narcomafie e Malitalia.
Una querela per diffamazione diventa temeraria quando è presentata con leggerezza o senza basi solide, spesso con l'intento di intimidire o zittire il giornalista. Queste azioni legali possono avere effetti deleteri sulla libertà di stampa, portando alla cosiddetta "censura per bavaglio" (SLAPP - Strategic Lawsuit Against Public Participation), in cui il costo e lo stress associati alla difesa legale possono scoraggiare i media dal riportare su temi controversi.
In alcuni paesi, esistono norme volte a proteggere giornalisti e attivisti da queste pratiche, prevedendo la possibilità di sanzionare chi abusa del sistema giudiziario per scopi intimidatori. Tuttavia, l'efficacia di tali misure varia significativamente da una giurisdizione all'altra.
Il rischio di denuncia per calunnia emerge quando, al termine di un'indagine su una querela per diffamazione, si scopre che l'accusa era infondata e che chi ha presentato la querela era consapevole della falsità delle proprie affermazioni. La calunnia, infatti, consiste nell'accusare qualcuno di un reato sapendo che queste accuse sono false.
Questo meccanismo serve a scoraggiare l'uso strumentale delle querele per diffamazione, proteggendo così l'integrità del sistema giudiziario e la libertà di stampa. La possibilità di una contro-denuncia per calunnia vuole essere un deterrente contro l'abuso del diritto di querela, assicurando che le azioni legali siano intraprese solo quando ci sono basi concrete e in buona fede.
La navigazione tra il diritto alla libera espressione e la protezione della reputazione richiede un equilibrio delicato. Strumenti giuridici come le querele per diffamazione e le potenziali denunce per calunnia hanno il compito di bilanciare questi interessi, ma possono anche essere sfruttati per scopi meno nobili. Una giustizia equilibrata e la vigilanza contro l'abuso dei processi legali sono essenziali per mantenere sia la libertà di stampa sia il diritto degli individui a proteggere la propria reputazione.
Edicola digitale
LA VOCE DEL CANAVESE
Reg. Tribunale di Torino n. 57 del 22/05/2007. Direttore responsabile: Liborio La Mattina. Proprietà LA VOCE SOCIETA’ COOPERATIVA. P.IVA 09594480015. Redazione: via Torino, 47 – 10034 – Chivasso (To). Tel. 0115367550 Cell. 3474431187
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 e della Legge Regione Piemonte n. 18 del 25/06/2008. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Testi e foto qui pubblicati sono proprietà de LA VOCE DEL CANAVESE tutti i diritti sono riservati. L’utilizzo dei testi e delle foto on line è, senza autorizzazione scritta, vietato (legge 633/1941).
LA VOCE DEL CANAVESE ha aderito tramite la File (Federazione Italiana Liberi Editori) allo IAP – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.