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Esteri
19 Novembre 2025 - 03:00
Alla Casa Bianca oggi è andata in scena una di quelle giornate costruite per lasciare il segno: tappeto rosso, onori militari, sorvoli di jet, sorrisi calibrati e una regia che sembra uscita direttamente da un film. Protagonisti, Donald Trump e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, l’uomo che guida di fatto l’Arabia Saudita e che da anni porta addosso una delle accuse più pesanti che un leader internazionale possa avere: l’ordine di far uccidere un giornalista.
Trump lo ha accolto come un alleato prezioso, quasi come un vecchio compagno di affari più che come un capo di Stato straniero. I due hanno passeggiato insieme nei giardini del South Lawn, hanno scambiato strette di mano, cenni compiaciuti e un abbraccio che, nella simbologia politica americana, equivale a una riabilitazione pubblica. Mentre i jet solcavano il cielo, la Casa Bianca si trasformava in un teatro di potere che fotografava perfettamente il nuovo corso diplomatico: gli Stati Uniti tornano a puntare con decisione su Riyad.
Il cuore dell’incontro, come prevedibile, è stato militare e commerciale. Trump ha annunciato che gli Stati Uniti sono pronti a vendere all’Arabia Saudita i caccia di quinta generazione F-35, l’arma più avanzata dell’arsenale americano, finora concessa solo a pochi alleati selezionati. È un segnale potentissimo: significa portare Riyad in una sfera tecnologica che fino a ieri sembrava off-limits. Significa anche spostare gli equilibri del Medio Oriente, irritare Israele, alimentare la competizione regionale, e allo stesso tempo inserire miliardi di dollari nelle casse dell’industria statunitense. E Trump, che da sempre legge la geopolitica anche attraverso la lente del business, non ha fatto nulla per nasconderlo.
Ma nessun annuncio, nessun abbraccio, nessuna passerella mediatica può cancellare la grande ombra che segue Mohammed bin Salman ovunque vada. È l’ombra del giornalista Jamal Khashoggi, cronista del Washington Post, ucciso brutalmente nel consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018. Khashoggi era entrato per ritirare dei documenti necessari al matrimonio. Non ne è mai uscito: è stato assassinato, smembrato e fatto sparire da un commando arrivato apposta dall’Arabia Saudita. Le indagini internazionali, i rapporti dell’intelligence e la ricostruzione della CIA hanno concluso che l’operazione non poteva essere stata condotta senza l'approvazione del principe. “Alta confidenza” è la formula usata dall’intelligence americana, che nel linguaggio dei servizi significa una cosa molto semplice: siamo certi che lo sapesse.


Eppure Trump, anche oggi, ha scelto la via della difesa totale. Ha definito il principe «uno dei leader più rispettati al mondo», ha detto che «non sapeva nulla» dell’omicidio e ha lasciato intendere che, in fondo, certe cose accadono. È la stessa linea già adottata nel 2018, quando aveva minimizzato le conclusioni della CIA e aveva spiegato che la priorità, per gli Stati Uniti, restavano gli affari con Riyad. Una posizione che oggi appare ancora più netta, perché non si limita a proteggerlo: lo rilancia sulla scena internazionale con tutti gli onori del caso.
Il principe, come sempre, ha negato qualsiasi responsabilità diretta, definendo l’uccisione “un errore gravissimo” e parlando di riforme interne. Ma queste dichiarazioni non hanno mai convinto la comunità internazionale, che vede in lui non solo il leader de facto dell’Arabia Saudita, ma anche il controllore assoluto degli apparati di sicurezza, dell’intelligence e delle operazioni speciali. Niente, in quel sistema, accade senza il suo benestare.
Fuori dalla Casa Bianca, intanto, le proteste non sono mancate. Le organizzazioni per i diritti umani hanno parlato di “normalizzazione dell’impunità”, di messaggio devastante alla libertà di stampa, di calpestamento della memoria di un giornalista che non ha mai avuto giustizia. La vedova di Khashoggi ha scritto una lettera durissima, ricordando che il corpo del marito non è mai stato restituito, che nessuno ha mai spiegato dove siano finiti i suoi resti e che gli uomini più vicini al principe non hanno mai affrontato un vero processo. Ciò che è avvenuto nei tribunali sauditi è stato un teatrino di condanne minori, processi segreti e responsabilità scaricate su funzionari sacrificabili.
E mentre fuori si discute di omicidi politici, sparizioni e diritti umani calpestati, dentro la Casa Bianca la diplomazia corre su un altro binario. Trump parla della necessità di mantener saldi i rapporti con Riyad per controllare i prezzi del petrolio, isolare l’Iran, rafforzare le alleanze nel Golfo e garantire afflussi miliardari di capitali negli Stati Uniti. Si discute di cooperazione energetica, investimenti infrastrutturali, tecnologia, difesa e persino della possibilità di sostenere i mega-progetti sauditi legati alla “Vision 2030”. Tutto questo mentre la foto del presidente americano che abbraccia un leader accusato dell’omicidio di un giornalista rimbalza su tutti i media del mondo.
Il paradosso è evidente: il Paese che proclama la libertà di stampa come pilastro della democrazia accoglie con tutti gli onori un uomo che, secondo i suoi stessi apparati investigativi, ha ordinato l’eliminazione di un cronista. La ragion di Stato, gli affari e la geopolitica sembrano pesare più della verità, più dei diritti umani e perfino più di un omicidio di cui esistono prove e responsabilità documentate.
Insomma, l’incontro di oggi non è una semplice tappa diplomatica. È un messaggio potentissimo, e forse inquietante: nel mondo reale, quando sul piatto ci sono miliardi, armi e petrolio, la vita di un giornalista può valere meno di una stretta di mano sul prato della Casa Bianca.
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