Cerca

Attualità

In Italia non serve bere per finire sotto un ponte: basta perdere il lavoro a 50 anni

Dal lavoro a 15 anni alla fabbrica che chiude, dalla crisi del 2008 allo sfratto, dai dormitori alla casa popolare: il viaggio amaro di Riccardo Allori, 63 anni, simbolo di una generazione schiacciata dalla deindustrializzazione e dall’indifferenza

In Italia non serve bere per finire in strada: basta perdere il lavoro a 50 anni

In Italia non serve bere per finire in strada: basta perdere il lavoro a 50 anni

Non tutti i senzatetto sono uguali. Non tutti hanno la stessa storia, gli stessi inciampi, le stesse cadute. C’è chi finisce in strada perché rifiuta le regole, perché trova rifugio nell’alcol, perché scappa da sé stesso più che dal mondo. E poi ci sono loro, i nuovi poveri, quelli che non hanno mai bevuto una goccia, che non hanno mai toccato una sostanza, che hanno sempre piegato la schiena al lavoro, al dovere, alle fabbriche che facevano girare l’economia di un Paese intero.

Questa è la storia di uno di quei “poveri per bene”, travolti non da un vizio ma da un crollo economico che li ha inghiottiti senza rumore. La storia di Riccardo Allori, 63 anni, vittima degli eventi, come dice lui stesso con quella lucidità brutale di chi ha visto crollare tutto, ma proprio tutto.

lavoro

Riccardo inizia a lavorare giovanissimo, nel 1978. È il 14 marzo, lo ricorda come si ricordano le date che segnano un’esistenza. Ha 15 anni, due giorni dopo le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro: l’Italia trema, lui invece comincia la sua vita adulta. “Ho sempre lavorato”, ripete con un orgoglio che non è vanto, ma identità. Dal ’92 in poi arriva la deindustrializzazione, lenta, silenziosa, devastante. “Hanno cominciato a chiudere una valanga di industrie. Ahi ahi ahi… ‘marca male’, mi dicevo. Ma tanti non se ne sono accorti: se fai il farmacista o il dottore, se lavori in Municipio o in un ospedale non te ne accorgi. Io la deindustrializzazione l’ho vissuta sulla pelle”.

Lui era impiegato in una fabbrica che produceva le capotte della Fiat Punto.In un'altra era arrivato ad occupare la posizione di responsabile qualità. Poi, come una diga che cede un po’ alla volta, l’azienda inizia a scricchiolare. Prima che chiudesse nel 2001 lui scappa via, prova a reinventarsi. Studia, diventa agente di commercio, resiste 11 anni e arriva la crisi del 2008, il fallimento della Lehman Brothers, e con quello un’altra valanga, ancora più violenta. “Io ho visto chiudere una marea di clienti qui a Torino”, racconta. Uno dopo l’altro spariscono, travolti da una recessione che nessuno sa contenere.

E in mezzo alla crisi, dice, c’era anche chi pretendeva le tasse “come i mafiosi”.

“Un conto è pretenderle, un conto è fare estorsione. Se io non ho 400 euro e mi rimandi la cartella da 700, questa è mafia”. Finisce in un ingranaggio dove pagare è impossibile, non perché non voglia, ma perché non può. Rateizza tutto con l’Agenzia delle Entrate, sopravvive solo grazie all’assegno di inclusione.

“Ho visto crollare tutto, tutto quanto. Sono una vittima della deindustrializzazione e del crollo economico di questo Paese. E non sono alcolista, non sono drogato”.

Senza lavoro arriva lo sfratto. La padrona di casa non vuole sentire ragioni. Riccardo prova la strada del lavoro nero: per sette mesi, dodici ore al giorno per niente. “Sono scappato. Non mi pagavano...”, dice. Da lì inizia la parabola discendente dei dormitori, degli alloggi temporanei, delle sedie scomode negli uffici dei servizi sociali. “Ho preso per un orecchio la mia assistente sociale”, dice senza ironia. “Subisco questa crisi e devo pure dormire in strada?”.

Il suo racconto sugli assistenti sociali è un misto di amarezza e incredulità. “Vivono nel mondo di Heidi”, dice imitando quelle frasi che gli risuonavano in testa. Alla fine ne trova una che lo inserisce in un progetto del Comune, un posto fisso nel dormitorio di via Valentino Carrera, zona Parella. Poi via Luigi Marsigli, poi le case alloggio del Comune in strada delle Cacce: spazi condivisi, chiavi in tasca, e un lento, lentissimo percorso di risalita.

È così che nel febbraio 2016 arriva per lui una casa popolare. Non una casa qualunque: la prima casa dopo anni di dormitori. La prima porta che si chiude e che lo protegge. Ma non basta un tetto a riparare un’esistenza: nel frattempo Riccardo ha un infarto, diventa invalido, l’INPS lo certifica. È separato dal 2011, non ha genitori, non ha sorelle. “Non ho nessuno”, ripete. Nessuno che lo aiuti, nessuno da cui andare a bussare.

Racconta la famosa frase dell'ex presidente del consiglio dei Ministri Mario Monti: “Ci sono stati tanti suicidi ma abbiamo evitato il default”. Riccardo la ricorda con un misto di rabbia e impotenza. “Un disastro”, dice. “La grande recessione del 2008 ci ha spezzati”. E aggiunge una verità che nessuno ama ascoltare: “Se perdi il lavoro a 50 anni, finisci così. Io ci ho provato in tutte le maniere a risalire. Ho un buon curriculum. Non sono un cretino. Ma a 50 anni non ti legge più nessuno”.

E poi ancora. “Questo Paese è in recessione. Possono cambiare tutti i governi che vogliono. Quando è iniziata mica c’era la Meloni. Poteva esserci anche un’anguria. Se non è zupa è pan bagnà...”. La saggezza amara di chi osserva un ciclo che non si arresta.

E poi c’è un altro tema: il commercio che muore. La colpa? “C’è chi dà la colpa ad Amazon. Ma meno male che esiste. Io con la gotta, invalido, come faccio? Mica posso farmi chilometri a cercare un negozio che non c’è. I negozi chiudono, vanno in pensione, e nessuno li rileva. Anche il commercio sta morendo”.

E mentre il Paese discute, cambia governi, cerca colpevoli, Riccardo guarda quei senzatetto che dormono sui cartoni e scuote la testa.

“Dormono in strada ma lo vogliono loro. Rifiutano le regole. Credono di essere liberi ma vivono come cani”.

Non lo dice con arroganza, ma come uno che ha visto tutto l’inferno che c’è tra la strada e un letto, tra un dormitorio e un alloggio popolare, tra l’essere travolti e l’accettare una mano tesa.

La storia di Riccardo Allori non è diversa da quella di migliaia di uomini precipitati dal mondo del lavoro a quello dell’assistenza, dall’autonomia alla sopravvivenza. È la storia di un Paese che, quando ha lasciato cadere le sue fabbriche, ha fatto cadere con esse anche chi ci lavorava. È la storia di un uomo che ha lavorato tutta la vita, che non ha mai smesso di provarci, che non ha mai chiesto privilegi. Un uomo che non voleva finire in mezzo a una strada. Un uomo che, semplicemente, è stato travolto.

E che oggi, a 63 anni, dice con voce ferma: “Sono una vittima degli eventi”. Perché a volte basta una crisi, un licenziamento, un infarto, uno sfratto. Basta una cartella esattoriale da 400 euro che diventa 700. Basta un Paese che si dimentica di chi lo fa girare davvero.

E così i nuovi poveri diventano invisibili. Ma sono loro che raccontano la verità più scomoda. Che nessuno vuole ascoltare. Che nessuno vuole vedere.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori