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18 Novembre 2025 - 10:38
Arriva martedì 18 la scadenza per depositare in commissione Bilancio del Senato gli emendamenti “segnalati” dai gruppi parlamentari più pesanti. Per le forze minori il tempo stringe ancora di più: ultimo giorno domani. Dentro questa finestra si concentra la scrematura finale dei correttivi alla manovra, che non potranno superare quota 414: 238 dalla maggioranza — con Fratelli d’Italia che ne rivendica 123, Lega 57, Forza Italia 39, Noi Moderati 19 — scelti tra i quasi 6 mila depositati venerdì. Ogni partito ha stilato la propria graduatoria: le proposte da difendere in commissione e poi in Aula.
A ricordare la regola d’oro è ancora una volta Nicola Calandrini, presidente della commissione Bilancio ed esponente FdI: qualsiasi ritocco alla legge di Bilancio dovrà poggiare su coperture certe, attraverso nuove entrate o riduzione delle spese. L’obiettivo dichiarato è chiudere il fascicolo entro venerdì e portare il testo emendato in Aula lunedì 15 dicembre. Per giovedì è previsto un vertice di maggioranza per fare il punto e verificare se i conti quadrano davvero.
In queste ore continua il lavoro su una misura che ha acceso l’interesse del centrodestra: la tassa sull’oro, proposta da Lega e Forza Italia. L’idea prevede un’aliquota agevolata del 12,5%, invece del 26%, per chi deciderà di rivalutare entro il 30 giugno 2026 l’oro da investimento già in portafoglio. «Può generare nuove risorse», osserva Calandrini, che però invita a misurare con precisione l’impatto sui conti pubblici.
Verso la conferma anche la discussa norma sulla sanatoria edilizia voluta da FdI, riguardante le irregolarità non condonate nel 2003, in particolare in Campania. Le opposizioni parlano di “voto di scambio”, ma Calandrini ribatte: «Non è in alcun modo un nuovo condono: si corregge una disparità che dura da ventitré anni». Intanto il partito di Giorgia Meloni lancia la campagna “Dalla parte degli italiani”, un set di slide con la premier in primo piano, a difesa della manovra.
La Lega, dal canto suo, non rinuncia a rilanciare la rottamazione quinquies, ampliandola anche a chi è decaduto dalla rottamazione quater dopo un accertamento, e abbassando dal 4% al 2% gli interessi per chi sceglie il pagamento rateale. Sempre dal Carroccio arriva l’emendamento che impone ai super-ricchi che trasferiscono la residenza in Italia — e beneficiano della flat tax da 300 mila euro — l’obbligo di investire 2 milioni in Bot o Btp a dieci anni, almeno 500 mila euro in start up e una donazione da 1 milione a un ente del terzo settore.
Nel pacchetto leghista compare anche la flat tax al 5% per l’assunzione di under 30. E non manca la battaglia contro l’aumento della cedolare secca sugli affitti brevi: il partito chiede lo stop al passaggio al 26% già dalla prima abitazione, linea sostenuta anche da Forza Italia, che propone invece di portare la cedolare al 21% per gli affitti dei negozi. Noi Moderati spinge per il 15% sugli affitti a lungo termine. Sempre il gruppo guidato da Maurizio Lupi chiede di alzare a 200 mila euro il valore catastale che consente di escludere la prima casa dal calcolo dell’Isee.
Forza Italia chiede inoltre una proroga biennale del bonus elettrodomestici. Su un altro fronte, FdI e FI convergono nel tentativo di bloccare l’aumento dal 26% al 33% della tassazione sulle criptovalute previsto dall’1 gennaio 2026. La Lega propone almeno di rinviare l’entrata in vigore di un anno, posizione condivisa anche dal Movimento Cinque Stelle.
Ed è proprio tornando al tema della sanatoria che il mosaico diventa più complesso. Nel 2003 il decreto nazionale prevedeva la regolarizzazione delle opere chiuse entro il 31 marzo 2003, ma solo a precise condizioni: niente interventi in zone vincolate, niente abusi su aree demaniali senza concessione, niente opere che non potessero essere adeguate alle norme antisismiche. E soprattutto, solo gli abusi formalmente irregolari — quelli senza permesso — ma comunque coerenti con le regole urbanistiche dell’epoca potevano ottenere il via libera. Un esempio classico: la veranda di 25 metri quadrati chiusa senza titolo nel 2002, ma in linea con distanze, altezze, indici edificatori e destinazione d’uso. Un intervento “fuorilegge” solo sulla carta, e per questo sanabile. Se anche uno solo di quei parametri fosse stato violato, addio condono: la legge era inflessibile.
A rendere la situazione campana ancora più intricata fu la scelta dell’allora presidente Antonio Bassolino. La Regione decise di non applicare il condono nazionale: prima con la delibera 2827/2003, poi con la legge regionale 10/2004, bloccò la sanatoria prevista dal decreto-legge 269/2003 e impugnò l’intero impianto davanti alla Corte costituzionale.
La Consulta intervenne con tre sentenze — 196, 198 e 199 del 2004 — che smontarono sia alcune parti dell’articolo 32, ritenute troppo restrittive nei confronti delle Regioni, sia la normativa campana che aveva escluso il condono. La sentenza 196/2004 ridisegnò in profondità il perimetro della sanatoria: riconobbe alle Regioni un ruolo decisivo nel fissare limiti volumetrici e categoria di abusi ammissibili, ma confermò la validità del condono nazionale. L’effetto collaterale fu drammatico: quando la Corte parlò, i termini erano già scaduti.
Il risultato fu un limbo amministrativo. Migliaia di cittadini campani — pur avendo presentato domanda e pagato l’oblazione — non poterono più proseguire le pratiche, a differenza del resto del Paese. Un’anomalia che da vent’anni alimenta interrogazioni parlamentari e un contenzioso mai davvero chiuso.
Ed è qui che entra in gioco l’ultimo tassello: la possibile riapertura dei termini. L’emendamento presentato in commissione rimetterebbe in moto l’intero procedimento previsto dall’articolo 32 della legge 326/2003, offrendo una sorta di “seconda chance” che, come allora, dovrebbe essere recepita dalle Regioni attraverso leggi proprie. Sarebbero loro, di nuovo, a stabilire quali interventi possono essere regolarizzati, con quali condizioni e secondo quali procedure.
La Campania sarebbe naturalmente la più coinvolta, ma non l’unica. Nel 2004 la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittime varie parti dell’articolo 32, costringendo a modifiche urgenti che lasciarono in sospeso anche situazioni di altre Regioni: pratiche interrotte per incertezze procedurali, domande congelate dalla sovrapposizione tra legge nazionale e legislazioni locali, casi rimasti sospesi tra la prima versione del condono e quella ricalibrata dopo le sentenze della Consulta. Una zona grigia che un’eventuale riapertura potrebbe finalmente ricomporre — o riaccendere.

Antonio Bassolino
Se davvero venissero riaperti i termini previsti dall’articolo 32 della legge 326/2003 senza aggiungere nuovi paletti, il perimetro degli interventi ammissibili ricalcherebbe quello stabilito vent’anni fa. Le regole erano precise, soprattutto sui volumi: gli ampliamenti non potevano superare il 30% della cubatura originaria né oltrepassare i 750 metri cubi, mentre le nuove costruzioni residenziali avevano un tetto di 750 metri cubi per ogni richiesta e un limite complessivo di 3.000 metri cubi per singolo soggetto.
La classificazione degli abusi seguiva l’allegato 1 al provvedimento. Le categorie 1, 2 e 3 — interventi realizzati senza titolo, in difformità dal titolo o ristrutturazioni prive del necessario permesso — erano sanabili su tutto il territorio nazionale, anche in aree sottoposte a vincoli, purché la normativa regionale lo consentisse. Le categorie 4, 5 e 6 — restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e opere non esprimibili in metri cubi o metri quadrati — richiedevano invece un esplicito via libera delle Regioni per essere regolarizzate in zone tutelate.
L’elenco delle esclusioni era altrettanto rigoroso. Restavano fuori gli interventi riconducibili a soggetti condannati per reati gravi come associazione mafiosa o riciclaggio; gli edifici che non potevano essere messi in sicurezza secondo i criteri antisismici fissati dall’ordinanza 3274/2003; tutte le opere realizzate su suolo demaniale senza concessione onerosa; e quelle sorte in aree tutelate dal punto di vista paesaggistico, idrogeologico o ambientale, se il vincolo era già in vigore al momento della costruzione e l’intervento risultava incompatibile con le norme urbanistiche. Erano inoltre escluse le opere che interessavano immobili dichiarati monumenti nazionali o di particolare pregio storico.
La procedura era altrettanto codificata: domanda entro i termini stabiliti (più volte prorogati negli anni), pagamento dell’oblazione prevista dall’allegato 1 — importo non trattabile — e acquisizione dei necessari pareri nel caso di immobili in aree vincolate. Il requisito temporale rimaneva il cardine dell’intero impianto: solo le opere concluse entro il 31 marzo 2003 potevano anche solo aspirare alla regolarizzazione.
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