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Rafale all’Ucraina: la Francia alimenta la guerra e incassa miliardi

arigi veste da “solidarietà” un mega-accordo da cento caccia e sistemi d’arma che non cambierà la guerra nel 2026 ma garantirà profitti alle industrie francesi per decenni. Tra retorica europeista, dipendenze tecnologiche e una corsa agli armamenti che somiglia più a un business che a un aiuto

Rafale all’Ucraina: la Francia alimenta la guerra e incassa miliardi

Rafale all’Ucraina: la Francia alimenta la guerra e incassa miliardi

All’alba, sulla pista di Vélizy-Villacoublay, il Rafale color grigio fumo buca la nebbia come un proiettile lucidato per la prossima guerra, non certo per la pace. Accanto alla fusoliera, le bandiere si gonfiano, i fotografi scattano e Volodymyr Zelenskyy stringe la mano a Emmanuel Macron con la precisione coreografica di un lancio pubblicitario. L’immagine vuole suggerire cooperazione, solidarietà, futuro. Ma basta guardarla due volte per capire che racconta soprattutto un’altra cosa: la Francia ha deciso che l’Ucraina deve diventare il miglior showroom possibile per la sua industria militare. I cento Rafale F4 promessi non sono un regalo: sono un investimento. Un investimento che parla francese, pesa miliardi e si dispiega nell’arco di un decennio, troppo lungo per salvare vite adesso ma perfetto per garantire ordini, linee produttive, partnership e utili per anni.

La cosiddetta “dichiarazione di intenti” non obbliga nessuno a nulla, se non a una cosa: aprire un sentiero politico-industriale che trasforma il conflitto in un’enorme opportunità economica. I sistemi SAMP/T, i droni intercettori, i trasferimenti tecnologici, le coproduzioni tra aziende francesi e ucraine sono presentati come atti di altruismo europeo. Ma a leggerli con la lente dell’inchiesta appaiono per ciò che realmente sono: un’architettura studiata per legare Kyiv all’ecosistema industriale francese, per anni, forse decenni. Lo stesso governo ucraino annuncia con enfasi che i progetti partiranno subito, come se “immediatamente” bastasse a spostare il peso di una guerra che continua a consumare un Paese e la sua popolazione. Mentre i primi F-16 entrano finalmente in linea, mentre le centrali elettriche vengono bombardate e i droni russi piovono sulle città, Parigi offre soluzioni che inizieranno ad arrivare tra almeno tre anni. E lo chiama aiuto.

i due cretini

Il piano si muove su due binari distanti anni luce: quello politico-industriale, di cui la Francia è maestra, e quello operativo, dove l’impatto nel breve periodo è quasi nullo. Gli equipaggi per volare un Rafale non si improvvisano, i meccanici ancora meno. La catena logistica richiede infrastrutture, hangar, sistemi di manutenzione, supply chain di ricambi. I SAMP/T NG con i nuovi Aster sono in produzione, ma non abbastanza da spostare l’ago della bilancia nei prossimi mesi. A cosa serve allora questo annuncio? Serve a costruire una narrativa. Serve a ribadire che la Francia vuole guidare la corsa alla militarizzazione dell’Europa, con la stessa sicurezza con cui negli anni ha imposto la propria visione di “autonomia strategica”: un concetto che sulla carta parla di indipendenza, ma nella pratica coincide con l’espansione delle fabbriche francesi di armi.

Sul finanziamento del pacchetto, la trasparenza si dissolve. L’Eliseo spiega che non saranno usati mezzi francesi, che si tratterà di forniture nuove di zecca. In altre parole: produzione, produzione e ancora produzione. Il conto? Forse arriverà dall’UE. Forse dagli utili dei beni russi congelati, soldi politicamente spendibili perché “non nostri”. Ma il costo reale? Quello si vedrà più avanti, quando i contratti saranno messi nero su bianco e l’Ucraina scoprirà quanto della sua futura sicurezza sarà scritta al 100% in francese. La retorica della solidarietà serve a coprire il punto fondamentale: la guerra è diventata il motore economico più potente dell’industria della difesa europea, soprattutto quella francese. E a Parigi non sembrano intenzionati a rallentare.

Dassault Aviation accelera tutto: ventuno Rafale nel 2024, venticinque nel 2025, obiettivo quattro al mese. La linea si allarga, la cooperazione con l’India amplifica la produzione globale, l’arretrato cresce fino a oltre duecento unità. Nulla di tutto questo è emergenziale: è pianificato, pensato, calibrato per un mondo in cui la domanda di armi non deve diminuire. I programmi europei di difesa aerea, dalla famiglia SAMP/T NG ai radar AESA di nuova generazione, entrano in produzione come se il conflitto non fosse un fallimento politico, ma una manna industriale. È così che si crea una dipendenza: non con una firma, ma con vent’anni di manutenzione, ricambi, aggiornamenti, corsi di addestramento, cooproduzioni. L’Ucraina diventa un partner, sì. Ma soprattutto un cliente a lungo termine.

La stessa eterogeneità della futura aviazione ucraina fa comodo più ai venditori che ai compratori: F-16 statunitensi ed europei, Mirage 2000-5 francesi, Gripen E svedesi e ora Rafale F4. Quattro linee logistiche, quattro tipologie di motori, quattro famiglie di armamenti, quattro sistemi di addestramento. Una complessità ingestibile persino in tempo di pace, figurarsi durante una guerra quotidiana. Ma il modello funziona perfettamente per chi produce. L’Ucraina, invece, rischia di trovarsi con una forza aerea affollata e disomogenea, dove ogni pezzo richiede un altro contratto, un altro pagamento, un’altra fornitura “urgente”.

Anche la partita dei droni intercettori, presentata come avanzamento tecnologico condiviso, nasconde una dinamica semplice: l’Ucraina vuole produrre migliaia di velivoli a basso costo; la Francia porta sensori e elettronica che la obbligheranno a standard più elevati, quindi più dipendenti e più costosi. È tecnologia che salva vite, certo, ma che riannoda il legame industriale. Cooperazione, sì. Ma asimmetrica.

Da Parigi, Emmanuel Macron esulta, definendo l’intesa un passo decisivo verso un’Europa della difesa. Una frase che tradotta significa: la Francia vuole guidare la spesa militare europea. Volodymyr Zelenskyy parla di accordo “storico”, perché non può permettersi di dire altro. Ma i mercati lo hanno capito prima di tutti: le azioni Dassault salgono immediatamente. Nell’Europa che predica pace a ogni conferenza stampa, basta un annuncio per far lievitare la capitalizzazione dei colossi della difesa. E questa non è una casualità: è una logica.

Sul campo, nel 2026, quasi nulla cambierà. Forse qualche batteria di difesa aerea, forse qualche sistema pronto prima del previsto. Ma il grosso arriverà dopo il 2030. Gli aerei, gli armamenti, i simulatori, le infrastrutture, tutto ciò che potrebbe davvero spostare l’equilibrio richiede anni. E intanto la Francia incassa contratti, consolida la propria leadership industriale, posiziona la propria narrativa come quella della “serietà europea”. Ma la domanda resta: chi paga davvero il prezzo di questa strategia? Chi vive sotto gli attacchi quotidiani? O chi intasca dividend, investe, assume, costruisce nuove fabbriche?

La retorica dominante sostiene che tutto ciò “serve alla pace futura”. Ma una pace costruita attraverso un’espansione senza precedenti dell’industria bellica è una pace condizionata, instabile, piena di vincoli. E soprattutto una pace che ha bisogno che la minaccia resti costante. L’accordo con l’Ucraina non è un colpo di teatro: è l’ennesima conferma che la Francia vede nel conflitto una leva geopolitica e industriale. Sorride, firma, promette. Ma quella nebbia all’alba non nasconde la verità: il giorno in cui la guerra finirà potrebbe non convenire a tutti allo stesso modo. E chi produce armi, spesso, è il primo a saperlo.

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