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18 Novembre 2025 - 04:00
Sheikh Hasina
La scena non è un’aula di giustizia, ma un campo di battaglia. Non ci sono toghe, solo fumo: lacrimogeni che esplodono come granate, sirene che graffiano l’aria, slogan che si frantumano contro il rumore secco dei manganelli. A Dacca, davanti all’ex residenza di Sheikh Mujibur Rahman, la folla urla come se il Paese stesse trattenendo il fiato da mesi. Quando la diretta televisiva inquadra il presidente della corte, il verdetto diventa un colpo di stato giudiziario in mondovisione: morte per l’ex primo ministro Sheikh Hasina. Accuse che pesano come macigni: crimini contro l’umanità per la repressione del movimento studentesco che nell’estate 2024 incendiò il Bangladesh. E mentre la città ribolle, Hasina, rifugiata in India, reagisce sputando fuoco: tribunale truccato, processo politico. La giustizia, in questo Paese, continua a strisciare tra il sangue e i lacrimogeni.

2012. SHEIKH HASINA PRIMO MINISTRO DEL BANGLADESH PAPA FRANCESCO JORGE MARIO BERGOGLIO
La condanna arriva il 17 novembre 2025, ma sembra la chiusura di un conto iniziato molto prima. A leggerla è il giudice Golam Mortuza Mozumder, volto impassibile e voce di pietra. L’International Crimes Tribunal, nato per sanare le ferite del 1971, oggi diventa il teatro di un processo che tenta di riscrivere l’estate più violenta del Bangladesh moderno. Oltre alla pena capitale per Hasina, tocca la stessa sorte all’ex ministro dell’Interno Asaduzzaman Khan Kamal, mentre l’ex capo della polizia Chowdhury Abdullah Al-Mamun si salva con cinque anni dopo essersi dichiarato colpevole. Dentro l’aula blindata ci sono militari, forze speciali, protocolli di sicurezza maniacali. Fuori, invece, c’è un’altra sentenza: quella delle strade, dei petardi, degli incendi dolosi, delle bombe artigianali che illuminano la notte di Dacca come un bollettino di guerra in diretta.
Il cuore dell’accusa pulsa su un punto: l’estate del 2024 non è stata una semplice gestione dell’ordine pubblico, ma un attacco deliberato contro manifestanti disarmati. L’ICT sostiene che Hasina abbia istigato la violenza, dato carta bianca agli agenti, permesso l’uso di armi da fuoco contro gli studenti. La corte parla di “elementi costitutivi del crimine pienamente soddisfatti”. Per l’ex premier, invece, è tutto un teatro allestito da un governo ad interim che non ha ricevuto alcun mandato dal popolo. Sta a Nuova Delhi, in un esilio che odora di trappola geopolitica, e ribatte colpo su colpo: non ho mai ordinato di sparare sulla folla, il controllo è sfuggito di mano, dice, come se in quelle settimane fosse stata spettatrice e non regista del proprio governo.
Ma la verità, in Bangladesh, è diventata un numero. E quei numeri non coincidono. L’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani parla di fino a 1.400 morti in 45 giorni, una mattanza che colpisce soprattutto giovani e minori. La stragrande maggioranza dei decessi, dice l’ONU, sarebbe dovuta a colpi di arma da fuoco esplosi dalle forze di sicurezza. L’esecutivo ad interim guidato da Muhammad Yunus si ferma a oltre 800 vittime, ma ammette più di 14 mila feriti. Il dossier ufficiale del governo, pubblicato in gazzetta nel gennaio 2025, riconosce 834 “martiri”, ma nessuno crede che sia la cifra finale. Numeri che ballano, numeri che dividono, numeri che dicono più delle parole: il Paese non è d’accordo nemmeno sul proprio lutto.
Tutto nasce da una miccia all’apparenza burocratica: il ripristino delle quote di lavoro pubblico riservate ai discendenti dei veterani della guerra d’indipendenza. Una norma antica, percepita dagli studenti come un privilegio ingiusto in un Paese dove la disuguaglianza è una condanna quotidiana. La protesta, in poche settimane, diventa un fiume che travolge tutto. Il governo di Hasina risponde con coprifuoco, limitazioni a internet, ordini operativi che – secondo molte testimonianze – autorizzano a sparare a vista. È la fine della sua leadership, ma soprattutto l’inizio della spirale che porta al processo odierno.
Il 5 agosto 2024 Hasina lascia il Bangladesh. Non una fuga, secondo lei: un atto per evitare una guerra civile. Tre giorni dopo, Yunus, premio Nobel e figura moralmente irreprensibile agli occhi di molti, assume il ruolo di capo consigliere. Da quel momento il Paese si divide tra chi vede un’opportunità di ripulire lo Stato e chi intravede un regolamento di conti spacciato per giustizia. L’interim mette al bando l’Awami League, chiede all’India l’estradizione di Hasina e Khan – richiesta che New Delhi ignora – e riattiva l’International Crimes Tribunal per giudicare la repressione dell’estate. Sono scelte che profumano di giustizia riparativa per alcuni, di vendetta politica per altri.
L’ICT, del resto, non è un tribunale qualsiasi. È lo stesso che Hasina aveva rilanciato nel 2009 per processare i carnefici del 1971. Oggi le parti si sono invertite. Ed è questo paradosso a rendere il processo radioattivo. Le udienze si svolgono in contumacia; Hasina sostiene di non aver potuto nominare liberamente i propri avvocati; la procura presenta documenti operativi e intercettazioni che la difesa definisce “manipolate”. In mezzo ci sono giudici che insistono sulla responsabilità di comando: se sei capo del governo, devi sapere cosa fanno polizia e reparti speciali. Punto. Ma la verità giudiziaria, in Bangladesh, non sempre è un punto. A volte è una virgola, sospesa nel fumo dei lacrimogeni.
Il rapporto ONU del febbraio 2025 descrive un Paese sotto assedio: uso sistematico di armi da fuoco contro i civili, arresti arbitrari, esecuzioni sommarie, minori colpiti a distanza ravvicinata. Le ONG parlano di un apparato repressivo fuori controllo. L’interim, invece, prova a costruire una memoria condivisa, elenca i “martiri”, distribuisce indennizzi, promette riforme. Ma mentre cerca di curare le ferite, la politica continua a riaprire la carne viva.
Sul tavolo resta il nodo più pesante: l’estradizione dall’India. Senza quella, la condanna a morte è una sentenza sospesa, un fantasma giuridico che non tocca mai terra. E New Delhi non sembra avere alcuna intenzione di consegnare una donna che per anni è stata la sua più solida alleata nella regione. Non esiste trattato, non esiste volontà politica, esiste solo una partita diplomatica giocata sotto traccia.
Ora il Bangladesh attende l’appello, ma l’appello è solo una parte della storia. L’altra parte sono le strade. Gli studenti promettono nuove mobilitazioni, i sostenitori dell’Awami League parlano di persecuzione, il governo rafforza la sicurezza nei centri urbani. È un equilibrio instabile, una miccia che non ha smesso di bruciare. Le elezioni previste tra fine 2025 e inizio 2026 rischiano di diventare l’ennesimo capitolo di una disputa infinita.
Resta una domanda che nessun tribunale può sciogliere: come trasformare una stagione di sangue in un percorso comune, senza che la giustizia venga riscritta dai vincitori? La sentenza del 17 novembre 2025 promette verità, ma potrebbe consegnare al Paese solo un nuovo trauma. Perché in Bangladesh, oggi, la legge parla dalle aule, ma la risposta arriva dalle strade. E finché le strade continuano a bruciare, nessuna sentenza sarà mai definitiva.
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