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Esteri
17 Novembre 2025 - 19:36
Ucraina, soldati venduti come al mercato: 15 arresti svelano il tariffario della guerra
Una stanza anonima, luce al neon, un pacco di banconote sul tavolo. Sembra la scena di una serie crime, ma è solo il fotogramma più sincero di un Paese in guerra che continua a combattere due nemici: la Russia e la sua stessa corruzione. Nelle ultime ore in Ucraina sono finiti in manette quindici tra ufficiali e funzionari militari sospettati di aver trasformato in merce ciò che in tempo di guerra dovrebbe restare sacro: il destino dei soldati, le nomine, le destinazioni operative, perfino i certificati medici. Gli investigatori parlano di almeno 1,5 milioni di grivne in mazzette documentate. Non una somma unica, ma una pioggia fitta di pagamenti regolari, frazionati, chirurgici. Un tariffario clandestino che scorreva parallelo allo sforzo bellico, alimentato dalla disperazione di chi vuole la retrovia, la scrivania, l’esenzione, la carta che lo allontana da un fronte dove si combatte metro per metro.
Gli arrestati occupavano posizioni diverse, alcuni con ruoli operativi, altri con funzioni amministrative. La loro specialità, secondo le ricostruzioni, era monetizzare ogni punto debole del sistema: una nomina ottenuta per via breve, un trasferimento in un reparto logistico, la possibilità di comparire “sulla carta” in un’unità di combattimento per maturare indennità senza mai uscire dalla base. In un filone d’indagine, gli investigatori hanno trovato pagamenti mensili tra 25 e 30mila grivne per garantire la presenza fantasma di alcuni militari negli ordini operativi; è così che due ufficiali del Sud del Paese avrebbero accumulato da soli l’intera cifra di 1,5 milioni di grivne in un anno. In altri casi, soprattutto nelle regioni di Kyiv, Kharkiv e Zaporizhzhia, la tariffa per spostare un soldato dalla linea del fronte alla retrovia oscillava tra i 3mila e i 15mila dollari, con punte fino a 25mila nelle reti più strutturate, spesso spalleggiate da intermediari che millantavano contatti nel ministero della Difesa.
Questa volta la risposta istituzionale è arrivata con un fronte compatto. SBU, DBR, Polizia nazionale, NABU e SAPO hanno lavorato in parallelo, intrecciando intercettazioni, pedinamenti e documenti sequestrati. È lo stesso blocco investigativo che negli ultimi mesi ha scoperchiato scandali ben più grandi, dagli appalti per droni e guerra elettronica — con tangenti fino al 30% del valore dei contratti e l’arresto di un deputato — fino alla cosiddetta Operazione Midas, la gigantesca inchiesta su Energoatom da cento milioni di dollari. In un Paese che corre verso l’Unione Europea e che sa che la trasparenza è ormai un requisito di sopravvivenza politica, ogni retata diventa un messaggio: il sistema non è immobile, gli anticorpi funzionano, e chi pensa di approfittare dell’emergenza rischia di essere travolto dalla reazione.
Eppure questa non è una storia che nasce oggi. La corruzione legata alla mobilitazione militare accompagna l’Ucraina da almeno due anni. Nel 2023 il presidente Volodymyr Zelensky epurò in blocco i vertici dei centri di reclutamento regionali definendo il loro operato “alto tradimento”. Da allora decine di indagini hanno smantellato reti specializzate in falsi certificati medici, esenzioni farlocche, uscite illegali dai registri o addirittura passaggi clandestini di frontiera. Gli importi restano sorprendentemente omogenei: quasi sempre tra i 3mila e i 15mila dollari, il prezzo di un'illusione di salvezza.

I dati ufficiali mostrano un Paese che non lascia correre. Nel primo semestre 2025 NABU e SAPO hanno aperto 370 nuove indagini, individuato 115 sospetti e ottenuto 69 rinvii a giudizio, con un impatto economico stimato in oltre 1,5 miliardi di grivne. Ma le statistiche, pur impressionanti, non rendono pienamente l’idea del fenomeno. La corruzione legata alla mobilitazione è trasversale, si insinua tra commissioni medico-militari sovraccariche, uffici territoriali dei centri di reclutamento, procure regionali e strutture militari. Ogni anello della catena diventa un possibile punto di frizione, un’occasione per l’intermediario giusto, il “fixer” di turno, l’uomo che chiede soldi in cambio di un documento, di un aggiornamento di posizione, di una firma che decide il destino di qualcuno.
Colpisce che le somme documentate in quest’ultima operazione siano un mosaico di micro-pagamenti: piccole cifre, ripetute mese dopo mese, che sommate creano un’economia sommersa che si autoriproduce. È la corruzione delle “rendite”, non dei colpi di teatro. È una consuetudine che sedimenta e si normalizza, mentre i grandi scandali — quelli che riguardano droni, energia, munizioni e appalti milionari — alzano il livello e dimostrano che il problema non vive soltanto nella trincea amministrativa, ma anche nei piani alti, dove le decisioni pesano su bilanci nazionali e sulla sicurezza collettiva.
Sul piano politico, la reazione arriva a cerchi concentrici. Il governo insiste sulla repressione nei punti più vulnerabili: accertamenti mirati, controlli sui trasferimenti, tracciabilità degli atti interni, digitalizzazione delle pratiche. Un approccio che incontra il favore dei partner europei, che non hanno mai fatto mistero di considerare la lotta alla corruzione un prerequisito per l’adesione all’UE. Anche in Italia, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha ribadito che l’Ucraina non otterrà meno sostegno se accelera sulla trasparenza; al contrario, sarà aiutata di più.
Il rischio, però, resta evidente. Ogni retata alimenta la propaganda russa, che usa l’argomento per raccontare un’Ucraina allo sbando. Ogni scandalo mina la fiducia interna e indebolisce la capacità di reclutamento. Ma l’alternativa — chiudere gli occhi — sarebbe molto più devastante: significherebbe abbandonare il fronte interno proprio mentre quello esterno chiede il massimo sforzo. È un equilibrio fragile, in cui la repressione serve non solo a punire, ma a dissuadere: le inchieste sui fondi per le munizioni spariti e sulle reti di appalti truccati lo dimostrano. I nodi vengono al pettine, e i colpevoli non sono intoccabili.
Che cosa cambia dopo i quindici arresti? Soprattutto la percezione interna. Nei centri di reclutamento e nelle commissioni mediche il margine di manovra per distorcere le procedure si assottiglia. Le forze armate mostrano di non essere immuni da vulnerabilità, ma anche di possedere gli strumenti per riconoscerle e affrontarle. L’elemento più delicato restano i mediatori, figure ibride che vivono tra burocrazia e mondo privato, capaci di fare da cerniera e da colla per le reti criminali. Le esperienze di Kyiv e Zaporizhzhia confermano che, quando il circuito degli intermediari viene spezzato, tutto il tariffario crolla in pochi giorni.
Resta la prudenza degli investigatori, che invitano a distinguere tra cifre accertate e stime generali: i 1,5 milioni di grivne trovati in un singolo filone di indagine non rappresentano la scala nazionale del fenomeno, ma solo la parte visibile di un sistema molto più ampio. È nella zona grigia, dove potere discrezionale, emergenza e asimmetria informativa si incontrano, che le reti attecchiscono meglio. Ed è lì che si giocherà la credibilità futura del Paese.
La posta in gioco è tutt’altro che contabile. Ogni mazzetta pagata per evitare la trincea è un peso scaricato sulle spalle di chi al fronte ci resta davvero. Ogni trasferimento comprato mina il principio di equità. Ogni falso certificato sottrae risorse e fiducia. In una nazione che ha deciso di fare della lotta alla corruzione un pezzo della propria resilienza, questi quindici arresti non sono un finale, ma un inizio: il primo mattone di una riforma che dovrà blindare regole, controlli e carriere. Se questo argine reggerà, lo si vedrà presto, nei tribunali e negli uffici dei centri di reclutamento, nelle commissioni mediche e soprattutto nei reparti che combattono. È lì che, ogni giorno, le scelte amministrative si misurano in vite umane e in chilometri di avanzata o ripiegamento.
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