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La nave dei 2.901 condannati: l’inferno dei bovini bloccati tra Uruguay e Turchia

Un vecchio cargo arrugginito, documenti irregolari, vitelli nati in mare, carcasse accumulate sul ponte: la Spiridon II è diventata il simbolo oscuro del commercio globale di animali vivi, un limbo galleggiante dove la burocrazia decide chi può vivere e chi può morire

“Rotte di carta”: 2.900 bovini alla deriva sulla Spiridon II, respinti a Bandırma e spediti indietro

Photo Animal Welfare Foundation Uruguay

Sembrava una delle solite rotte del commercio globale di animali vivi: silenziosa, invisibile, perfetta per restare lontana dagli occhi dell’opinione pubblica. Invece quei 2.901 bovini partiti dall’Uruguay verso la Turchia sono diventati il simbolo di un sistema che preferisce ignorare ciò che trasporta. Sono giovani manze Holstein, molte gravide, caricate nel porto di Montevideo su una nave del 1973, la Spiridon II, un vecchio scafo arrugginito battente bandiera del Togo, convertito alla meno peggio per il trasporto di animali vivi. Un viaggio di un mese, ufficialmente. Un incubo di due mesi e oltre, nella realtà.

Quando la nave arriva a destinazione, a Bandırma, sul Mar di Marmara, le autorità turche si rifiutano di far scendere gli animali. I documenti non tornano. Le marche auricolari non coincidono con le liste ufficiali. Centinaia di capi non risultano nei registri di selezione. E allora nessun animale sbarca. Nessuno. Il carico diventa improvvisamente scomodo: né accettabile, né restituibile. Le aziende importatrici tentano un ricorso urgente, sostengono che i controlli siano stati eseguiti in modo irregolare, ma il tribunale respinge. La burocrazia ha deciso: quella nave non deve toccare terra.

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Intanto, sul ponte, la vita continua a scorrere nel modo più brutale possibile. Gli animali sono stipati uno contro l’altro, tra odori pestilenziali e mosche che infestano ogni centimetro. Ventiquattro ore su ventiquattro, senza spazio, senza tregua. Muovono appena la testa, cercano aria, cercano acqua che scarseggia. Ci sono carcasse chiuse nei sacchi, in attesa di essere smaltite quando – se – si troverà un porto disposto a farlo. Sono almeno cinquanta i bovini già morti nel silenzio del mare, ma il numero varia perché nessuno controlla davvero. E mentre le morti crescono, arrivano anche le nascite: le associazioni stimano oltre cento vitelli venuti alla luce a bordo, nati in un inferno galleggiante dove il pavimento è scivoloso di letame e urine. Alcuni dei piccoli non si trovano: dispersi, deceduti, gettati? Nessuno fornisce risposte.

La Spiridon II ottiene un attracco temporaneo solo per caricare acqua e mangime. Un gesto minimo, concesso più per evitare una strage evidente che per reale compassione. Poi viene rimandata al largo, come un rifiuto che nessuno vuole toccare. Il governo turco comunica che la nave deve tornare indietro: di nuovo in Uruguay, altre migliaia di chilometri sull’oceano, altre settimane di navigazione. E allora questi animali, già provati da una prigionia di cinquanta, sessanta giorni, dovrebbero affrontare un ulteriore viaggio interminabile. Per tornare al punto di partenza. Per essere forse nuovamente rifiutati.

Le cifre sono fredde, ma parlano più forte di qualunque dichiarazione: 2.901 animali caricati, decine di morti, centinaia di irregolarità, vitelli nati nel nulla, senza alcuna forma di tutela. Sono numeri che raccontano un mondo dove il benessere animale è l’ultimo pensiero, schiacciato tra speculazioni, compravendite, controlli formali e responsabilità che si rimpallano da un ufficio all’altro. Le associazioni animaliste documentano, filmano, chiedono di far sbarcare almeno gli animali in regola. Nessuno risponde. Le istituzioni turche e uruguaiane si studiano a distanza, mentre il carico respira a fatica, sotto un tetto di metallo arroventato.

La storia dei bovini della Spiridon II non è un incidente, non è un caso isolato, non è un imprevisto. È il ritratto nitido di un mercato che considera la vita come merce deteriorabile, che sposta animali come container, che permette a navi vecchie mezzo secolo di trasportare esseri viventi in condizioni che nessun regolamento, se applicato con rigore, potrebbe accettare. È una tratta moderna che non somiglia alle fiere agricole, ma ai peggiori trasporti clandestini di esseri umani: stanze senza luce, sovraffollamento, nascite, morti, silenzi. Ed è proprio quel silenzio, quello del mare attorno alla nave, quello dei governi che evitano di decidere, quello dei porti che negano l’attracco, che lascia questi animali sospesi in una zona grigia. Non vivi abbastanza da meritare soccorso. Non morti abbastanza da suscitare scandalo.

La Spiridon II è ancora lì, a vagare, una prigione galleggiante che porta con sé l’odore acre dell’abbandono e della vergogna. I bovini continuano a resistere come possono: respirano, partoriscono, soffrono, aspettano. E mentre il mondo discute di normative, di responsabilità, di firme e controfirme, loro restano numeri in una tabella, anime perse sull’oceano.

Se vuoi, posso trasformare questo testo in un pezzo ancora più d’inchiesta con focus sulle responsabilità politiche e commerciali della rotta Uruguay–Turchia e sulle falle del sistema dei trasporti di animali vivi.

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