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Hanno sfondato le barriere della COP30: gli indigeni del Tapajós denunciano al mondo la devastazione dell’Amazzonia

Nel cuore di Belém gli indigeni del Tapajós forzano l’ingresso della zona blu e trasformano la conferenza sul clima in un atto d’accusa contro le politiche brasiliane sull’Amazzonia: avvelenamento da mercurio, miniere illegali, agroindustria e diritti negati dietro il grido “La nostra terra non è in vendita”

Hanno sfondato le barriere della COP30: gli indigeni del Tapajós denunciano al mondo la devastazione dell’Amazzonia

Hanno sfondato le barriere della COP30: gli indigeni del Tapajós denunciano al mondo la devastazione dell’Amazzonia

L’ingresso principale della COP30 è rimasto bloccato per quasi un’ora, ma il tempo, in quei minuti, sembrava essersi dilatato. Le sirene rimbombavano contro le transenne mentre i canti degli indigeni si fondevano con il rumore secco dei manganelli. Le piume dei copricapi ondeggiavano come fossero la continuazione naturale della foresta che difendono da secoli. L’altro ieri, a Belém, nel cuore vivo e ferito dell’Amazzonia, è accaduto qualcosa che raramente succede nella “zona blu”, il sancta sanctorum della diplomazia climatica planetaria: gli indigeni del Tapajós hanno forzato le barriere e costretto il vertice mondiale a guardare finalmente negli occhi chi quella foresta non la racconta, ma la vive.

Erano arrivati già nei giorni precedenti in corteo, guidati dalle canoe che risalivano il Guamá e da un enorme serpente di tessuto che si muoveva come un essere vivente. Un “cobra” lungo più di trenta metri: simbolo, monito, metafora. Cobra in portoghese significa anche “riscuotere”, e il messaggio non aveva bisogno di traduzioni: i popoli dell’Amazzonia sono qui per riscuotere il debito climatico che il mondo ha accumulato sulle loro spalle. In testa alla marcia, le bandiere dei popoli del Tapajós e dei Munduruku, i volti segnati da pitture rituali, le piume che fendono un’aria impregnata di umidità e tensione. Nella città trasformata dalla Great People’s March, tra bare simboliche che recavano le scritte “carbone”, “petrolio”, “gas” e pupazzi neri a ricordare gli attivisti uccisi, il linguaggio della protesta era più chiaro di qualsiasi documento negoziale: giustizia climatica, diritti territoriali, difesa dei fiumi, sopravvivenza delle comunità.

I Munduruku abitano da secoli il bacino del Tapajós, una delle zone più contese dell’Amazzonia. Ciò che chiedono è semplice e scritto nero su bianco nella Costituzione: la demarcazione delle loro terre, in particolare dell’area di Sawré Muybu. Una foresta di valore incalcolabile che lo Stato brasiliano continua a trattare come una zona industriale di espansione: monoculture di soia, miniere illegali, progetti ferroviari e idroviari pensati per trasformare i fiumi in autostrade per l’export. Per i Munduruku, il Tapajós non è una via commerciale: è un organismo vivente, un libro sacro di acqua e memoria. Ogni lago ha un nome, ogni ansa del fiume un antenato. Ma oggi, quei luoghi vengono sommersi dal mercurio dei garimpeiros, feriti dalle motoseghe, mangiati dal fuoco. Si registrano bambini con disturbi neurologici, pesci deformati, foreste ridotte a pozze tossiche. Per il governo è “sviluppo”. Per i Munduruku è sterminio.

Le ragioni della loro rabbia affondano nella storia recente. La tesi del “marco temporal”, secondo cui i popoli indigeni avrebbero diritto solo alle terre occupate nel 1988, è un colpo di spugna che trasformerebbe decenni di violenze, sfollamenti e invasioni in una legittimazione legale del furto. A questo si aggiunge il decreto 12.600/2025 che privatizza tratti idroviari, compreso il Tapajós: significa aprire spazio a chiatte cariche di grano, a operazioni su larga scala che ignorano completamente il diritto alla consultazione previsto dalla Convenzione 169 dell’ILO. In questo contesto, è normale che i popoli del Tapajós si presentino alla COP non come comparse folkloristiche, ma come protagonisti arrabbiati, determinati e stanchi di essere ignorati.

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Quando hanno spinto e superato le barriere d’ingresso della zona blu, il mondo ha visto il paradosso perfetto della COP amazzonica: una conferenza che discute di deforestazione e diritti indigeni mentre i veri custodi della foresta vengono respinti dalla sicurezza. Ci sono stati momenti di tensione, un agente portato via su una sedia a rotelle, steward travolti, urla e lacrime. Quelle immagini hanno fatto il giro del mondo, sì, ma raccontano solo un frammento. Perché, al di fuori delle telecamere, gli indigeni continuano a essere assassinati, minacciati, perseguitati da garimpeiros, narcotrafficanti, fazendeiros. Ogni loro protesta è un atto di coraggio. Ogni strada bloccata è un rischio di morte.

Il Brasile, ufficialmente, si presenta come paladino dell’Amazzonia. A parole promette protezione, demarcazioni, lotta al crimine ambientale. Nei saloni climatizzati della COP30, il presidente André Corrêa do Lago e le ministre Sônia Guajajara e Marina Silva parlano di inclusione e sostenibilità. Ma nelle regioni remote dell’Amazzonia, la realtà è fatta di ritardi burocratici, progetti calati dall’alto, connivenze locali e un’agroindustria che avanza come un bulldozer. Le comunità indigene vivono sospese tra due mondi: celebrate nei discorsi, ignorate nelle decisioni concrete.

Per questo la loro protesta non è stata un episodio isolato. È stata la punta dell’iceberg. Hanno chiesto di essere ricevuti dai ministri, hanno ottenuto incontri, ma hanno lasciato chiaro un messaggio: senza i popoli indigeni, nessuna politica climatica avrà senso. “Siamo noi a proteggere il clima. Ma non ci ascoltate.” Una frase che pesa come una sentenza. Per loro la foresta non si difende con conferenze, droni o report: si difende con la vita quotidiana di chi la abita e la conosce come nessun climatologo potrà mai fare.

E allora resta questa immagine: non gli scontri, non le transenne cadute, non i cordoni della polizia. Resta la sensazione che qualcosa si sia incrinato nel meccanismo oliato delle COP. Perché in un contesto spesso dominato da acronimi, cifre e compromessi diluiti, i Munduruku hanno riportato al centro la sola verità che conta: la foresta non è una questione tecnica, è una questione di vita e di morte. Non chiedono fondi verdi. Non chiedono piani quinquennali. Chiedono soltanto che la loro casa non venga distrutta. Che i fiumi non siano venduti alle multinazionali. Che il mercurio non finisca nei piatti dei loro figli. Che la foresta sia lasciata libera di continuare a respirare.

In un mondo che trasforma la crisi climatica in un grafico, loro hanno rimesso la carne, il sangue e il suono dei tamburi al centro del discorso. Non è stata solo una protesta: è stato un promemoria brutale, necessario, ineludibile. La frase “La nostra terra non è in vendita” riecheggia ancora sulle rive del Guamá, più forte di qualunque dichiarazione in plenaria. E forse, per la prima volta, qualcuno dentro quei padiglioni ha finalmente capito che la giustizia climatica non scende dall’alto: sale dal basso, dalle canoe, dai canti, dalle mani che sorreggono un serpente di stoffa lungo trenta metri. Dalla voce antica di chi quella foresta la chiama casa.

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