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16 Novembre 2025 - 16:13
La bandiera dello Stato Islamico
Era una sera di novembre, e su uno schermo qualsiasi – in una sala qualsiasi di una provincia qualsiasi – scorrevano ancora immagini patinate del “califfato” in HD. Non erano semplici video, erano trailer: montaggi perfetti, anasheed come colonna sonora, infografiche concepite per vendere un sogno di distruzione. Nel 2015, quando lo Stato islamico rivendicò gli attentati di Parigi, la sua macchina mediatica raggiunse l’apice. Un’industria dell’orrore capace di produrre un flusso continuo di contenuti, tutti progettati con cura chirurgica per catturare attenzione, reclutare nuove leve, intimidire chiunque. Oggi, dieci anni dopo, quella coreografia non invade più le nostre bacheche. Ma sarebbe un errore pensare che sia scomparsa: si è frantumata, trasformata, polverizzata in mille rivoli digitali. Più implicita. Più resiliente. Più difficile da intercettare. E, soprattutto, ancora attiva.

Nel 2015 lo Stato islamico non si comportava come un gruppo terroristico, ma come una multinazionale dell’attenzione. Quel mese di agosto – ricorda Laurence Bindner su Le Monde – produssero 700 contenuti distinti: magazine digitali, video professionali, reportage fotografici, comunicati, canti corali. Un universo parallelo sostenuto da fondazioni media incaricate di tradurre, ripubblicare, rebrandizzare ogni messaggio. L’ultraviolenza non era un effetto collaterale: era il messaggio. Serviva a popolare il proto-Stato e a imporsi sul mercato ideologico jihadista. Una strategia studiata fino all’ossessione.
Di fronte a questo tsunami, l’Europa iniziò a reagire. A luglio fu creata l’Internet Referral Unit di Europol: nel giro di pochi mesi, l’89% dei contenuti segnalati venne rimosso. Era l’inizio di una guerra di attrito, destinata a spostarsi continuamente tra piattaforme, formati, linguaggi.
Quando il territorio si sgretola e cadono figure chiave della propaganda, anche la macchina mediatica dell’ISIS rallenta. Non si spegne: cambia pelle. I grandi social chiudono le porte, la moderazione diventa più severa, e la propaganda si rifugia altrove. In spazi più piccoli, più confidenziali, più criptati. Una galassia di canali paralleli che continua a produrre – meno, ma con costanza – riciclando archivi, adattando vecchi materiali e sperimentando tecniche nuove.
Nel 2024 emerge una nuova frontiera: video manipolati con intelligenza artificiale che simulano grafiche televisive, loghi di CNN o Al Jazeera, notiziari fasulli costruiti per amplificare messaggi jihadisti. Alcuni rimossi rapidamente, altri sfuggiti ai filtri, rimbalzati qua e là come scaglie incandescenti di un incendio mai del tutto spento. È la prova che la battaglia della moderazione è diventata infinitamente più complessa.
Mentre il “centro” dell’ISIS perde potenza, alcune periferie diventano vere centrali narrative. La branca del Khorasan (ISKP), attiva tra Afghanistan e aree limitrofe, costruisce un apparato mediatico multilingue sempre più sofisticato. L’ecosistema di Al-Azaim pubblica poster, sticker, gif, micro-video, infografiche: un bombardamento visivo continuo pensato per educare, reclutare, cementare l’identità interna.
Poi c’è l’“effetto evento”.
Il 22 marzo 2024, l’attacco al Crocus City Hall di Mosca offre a ISKP una vetrina planetaria. Le immagini, i comunicati, le rivendicazioni diffusi tramite Amaq saturano i feed e i canali Telegram. La propaganda non colpisce solo durante l’attacco, ma prima – con minacce e teaser – e dopo, con narrazioni di successo e manuali per l’emulazione. È un ciclo che si autoalimenta, amplificato da disinformazione geopolitica che cavalca il caos. Per l’Europa, un promemoria gelido: la minaccia non ha confini geografici e la dimensione mediatica è parte integrante dell’azione terroristica.

Se le “grandi produzioni” sono diminuite, la propaganda breve – quella più facile da condividere – è esplosa. Meme, collage, clip da videogame, sticker, gif: frammenti minuscoli che parlano il linguaggio delle piattaforme mobile-first.
Il TE-SAT 2025 fotografa una deriva inquietante: adolescenti e preadolescenti coinvolti in processi di auto-radicalizzazione dentro micro-community digitali. Non si entra più per adesione ideologica, ma per immersione progressiva in ambienti che normalizzano l’estremo e offrono un repertorio estetico immediato. Tra aprile e maggio 2025, un’operazione in 17 Paesi rimuove oltre 2.000 contenuti mirati proprio ai minori: video emozionali, meme, persino videogiochi manipolati.
E la differenziazione di genere è chirurgica: eroismo, combattimento, azione per i ragazzi; ruoli di supporto, cura, logistica per le ragazze. La propaganda jihadista cambia forma, ma non cambia metodo.
La risposta dell’Europa si muove su tre assi: giudiziario, regolatorio e tecnico.
Nel 2024 sono stati registrati 449 arresti per reati di terrorismo (289 jihadisti) e 427 condanne. L’EU IRU continua a colpire manuali, how-to, hub di distribuzione. Il Digital Services Act costringe le piattaforme a maggiore trasparenza e collaborazione.
Il fronte più critico resta però quello dei canali cifrati. La svolta pubblica arriva con l’arresto del fondatore di Telegram, Pavel Durov, nell’agosto 2024 a Parigi. L’azienda annuncia un cambio di passo: restrizioni a funzioni abusate, procedure di segnalazione più chiare, maggiori rimozioni. Non è la soluzione. Ma obbliga la propaganda jihadista a spostarsi di continuo, erodendo stabilità e capacità di accumulare pubblico.
La propaganda jihadista non è isolata: convive e spesso si confonde con operazioni di manipolazione geopolitica, interferenze straniere, campagne coordinate. In Francia, il servizio VIGINUM monitora e neutralizza reti di disinformazione dal 2021. I rapporti 2025 mostrano quanto sia sottile il confine: tecniche nate in altri teatri – inclusi i metodi del masking jihadista – vengono replicate per avvelenare il dibattito politico, sfruttare algoritmi, utilizzare influencer come moltiplicatori inconsapevoli. Un’ibridazione che obbliga a risposte integrate e multilivello.
In un decennio, lo scenario è stato ribaltato:
dalla “propaganda broadcast” ai micro-contagi virali: meno kolossal, più snippet, meme, sticker;
dalla piazza globale agli spazi chiusi: visibilità minore, pericolosità intatta;
da media center centralizzati a un arcipelago di canali semi-autonomi;
dagli adulti agli adolescenti come target primario.
E intanto, i processi in Europa hanno mostrato con chiarezza come l’apparato mediatico fosse parte integrante delle operazioni che portarono al 13 novembre 2015. Le storie dei “Beatles” e dei carcerieri dello Stato islamico rivelano un dettaglio cruciale: la violenza era pensata anche per la telecamera. Era un’arma.
Il paradosso del 2025 è semplice: una propaganda meno rumorosa non significa una propaganda meno efficace. È più economica, più adattiva, più compatibile con l’ecosistema digitale. Non cerca più di dominare le bacheche: preferisce infiltrarsi tra i margini, nei sottoboschi delle piattaforme, nei luoghi dove l’attenzione è più dispersa e meno sorvegliata.
L’Europa ha imparato molto dal 2015. Ha frammentato la macchina mediatica del califfato, ha alzato i costi per chi diffonde contenuti terroristici, ha impedito che l’ISIS restasse un “brand” globale. Ma la battaglia non è finita: nel mondo digitale nulla si estingue davvero. Si sposta, si trasforma, ricompare altrove.
Per questo oggi, dieci anni dopo, la parola d’ordine non è “spegnere”, ma manutenere:
cooperazione giudiziaria, pressione regolatoria, innovazione tecnica, alfabetizzazione sociale.
Non c’è uno schianto finale, nessuna resa scenografica.
Solo una fatica continua, ostinata, tenace.
Una fatica di Sisifo digitale.
E, questa volta, la fatica è la strategia.
Edicola digitale
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