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Esteri
16 Novembre 2025 - 15:55
notte
All’alba, gli schermi dei telefoni illuminano le cucine d’Europa. Sei parole, asciutte e definitive, appaiono su X: “Camilo Castro è libero”. A scriverle è il presidente francese Emmanuel Macron, mentre a Toulouse una madre ricomincia a respirare e a Caracas si chiude, almeno per un uomo, una vicenda fatta di silenzi, celle e attese. Poche ore dopo, il ministro degli Esteri Jean-Noël Barrot aggiunge un tassello decisivo: “È ormai al sicuro, sull’aereo che lo riporta in Francia”. La conferma spezza quattro mesi di assenza e dà ragione alla famiglia e ad Amnesty International, che dal 26 giugno 2025, giorno della sua scomparsa al valico di Paraguachón tra Venezuela e Colombia, ripetono senza sosta la stessa verità: Camilo Castro era nelle mani delle autorità venezuelane.
La liberazione non è solo un lieto fine individuale ma la fotografia di un sistema, quello della sicurezza venezuelana, che secondo documenti e denunce affida ancora a detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate la propria architettura di pressione politica e diplomatica. È un tema che riguarda venezuelani e stranieri e sul quale Amnesty, nel rapporto pubblicato nel luglio 2025, ha scritto parole taglienti. Castro, 41 anni, doppia nazionalità – francese per parte di madre, cilena per parte di padre – è un insegnante di yoga che vive in Colombia. A inizio estate deve rinnovare il visto colombiano e, come accade nelle zone di frontiera, serve uscire dal Paese per rientrarvi con un timbro aggiornato. Sceglie la breve traversata verso il Venezuela, immaginando un’operazione veloce. Dopo l’ultima nota vocale inviata ai familiari, di lui si perde ogni traccia: l’ultima immagine è proprio il valico di Paraguachón, tra La Guajira e lo Stato venezuelano di Zulia.
Per settimane la famiglia bussa a consolati, redazioni, ministeri. Un messaggio audio arrivato “a fine luglio” – un flebile appello che la madre, Hélène Boursier, ricorderà come “ha chiamato aiuto” – è l’unico filo con l’esterno. Grazie alla pressione dei familiari e alla mobilitazione internazionale, prende forma l’ipotesi della detenzione a Caracas, nel complesso penitenziario di El Rodeo. Dopo un iniziale muro di silenzio, le autorità venezuelane ammettono la custodia e autorizzano una prima visita consolare in autunno, segnando un cambio di fase.
Il nome di Camilo Castro entra così nella lista dei casi monitorati da Amnesty International. La definizione è netta: “sparizione forzata”, la pratica con cui lo Stato nega notizie sulla sorte e sul luogo di detenzione di una persona. Fermo al confine, isolamento, informazioni centellinate: una dinamica che si ripete in altri dossier dell’ONG. Nel suo rapporto del luglio 2025, Amnesty documenta almeno quindici casi in un anno, undici dei quali ancora irrisolti allora, coinvolgendo cittadini di Francia, Spagna, Stati Uniti e altri Paesi. Una costellazione di episodi che l’ONG considera parte di un attacco “diffuso e sistematico” contro la popolazione civile, tale da configurare possibili “crimini contro l’umanità”.
A Toulouse l’assenza si trasforma in mobilitazione. A settembre, dopo “86 giorni di detenzione”, un corteo attraversa la città chiedendo la liberazione del connazionale. Tra cartelli e megafoni, Hélène Boursier chiede solo una cosa: “Libérez Camilo!”. Le pressioni pubbliche, così come il lavoro delle ONG, mantengono viva l’attenzione sul dossier e alimentano le richieste di accesso consolare rivolte a Caracas. Nel frattempo Parigi tratta con la consueta miscela di discrezione e fermezza che caratterizza i casi sensibili. Non è un dettaglio che i rapporti bilaterali tra Francia e Venezuela siano stati segnati da momenti di forte tensione: nel gennaio 2025 la Chargée d’affaires venezuelana a Parigi era stata convocata al Quai d’Orsay dopo decisioni giudicate lesive dell’azione dell’ambasciata francese. In quel clima, il caso Castro diventa un elemento delicato dell’agenda. L’annuncio del 16 novembre 2025 – affidato direttamente al presidente e al ministro – segnala che i canali diplomatici hanno lavorato, forse anche con interlocuzioni indirette e il sostegno di partner regionali.
Il carcere di El Rodeo, a quaranta chilometri da Caracas, è un nome noto a chi si occupa di diritti umani. Secondo le prime conferme, Castro sarebbe stato collocato in una sezione separata per stranieri, in celle condivise, con uscite limitate a brevi finestre settimanali e condizioni igieniche precarie ma non estreme. Sono dettagli rimasti in ombra per settimane, finché l’ammissione ufficiale della detenzione e la visita consolare non li trasformano in elementi verificabili. La famiglia insiste su un punto: nessuna accusa chiara, nessuna contestazione formale, nessun diritto alla difesa esercitabile in modo reale. Più delle condizioni materiali, è la mancanza di garanzie a definire la natura del caso. Le norme internazionali prevedono accesso consolare, comunicazione tempestiva dei motivi del fermo, presentazione rapida davanti a un giudice; per Camilo Castro, almeno fino a ottobre, tutto ciò si verifica in modo tardivo e parziale.

Il contesto politico venezuelano, segnato dalle controverse elezioni del luglio 2024 e dalla stretta contro presunti dissidenti, amplifica il significato della vicenda. Secondo Amnesty, la sparizione forzata è anche uno strumento per alimentare la narrativa delle “cospirazioni esterne” e, talvolta, una moneta di scambio nei tavoli negoziali. La liberazione di uno straniero, quindi, non riguarda mai solo lui: racconta equilibri, segnala priorità, suggerisce spostamenti nella diplomazia regionale. A ciò si aggiunge un dato più ampio: lo spazio civico venezuelano, da anni sotto pressione, colpisce attivisti, oppositori, giornalisti, difensori dei diritti umani. Sul versante colombiano episodi di violenza contro esuli venezuelani hanno contribuito a creare un clima di insicurezza transfrontaliera, trasformando un’operazione burocratica – uscire dal Paese per rientrarvi – in un salto nel buio.
La scelta di Emmanuel Macron di annunciare la liberazione via X – “La Francia avanza talvolta senza rumore, ma sempre con determinazione e sangue freddo” – si inserisce nella strategia di comunicazione che alterna silenzi operativi a segnali politici. È un messaggio a Caracas, alle opinioni pubbliche europee, ai cittadini francesi che vivono casi simili. Subito dopo, Jean-Noël Barrot informa che Castro è sull’aereo diretto in Francia, un dettaglio essenziale: finché non si è fuori dallo spazio aereo venezuelano, la variabile dell’imprevisto non scompare mai del tutto.
In Italia l’annuncio richiama immediatamente un altro nome: Alberto Trentini, cooperante italiano di 46 anni, da oltre un anno detenuto in Venezuela senza incriminazione formale secondo quanto riportato da molte testate. Il parallelo non implica identità di situazioni, ma evidenzia una costante: nei dossier venezuelani la nazionalità può diventare una variabile della trattativa. La liberazione di Castro riaccende l’attenzione sugli altri casi europei ancora irrisolti e rende inevitabile una riflessione sul peso geopolitico dei singoli passaporti.
La parola “libero”, ora, ha un significato concreto e insieme provvisorio. Dopo quattro mesi di detenzione, chi esce da una sparizione forzata porta con sé segni visibili e invisibili: spossatezza, ipervigilanza, una percezione alterata del tempo. Nei racconti raccolti in autunno Castro appare “stremato”, provato dalle lunghe settimane in cella e dai contatti limitati. Il rientro in Francia servirà per le valutazioni mediche, il ricongiungimento con la famiglia e, se lo vorrà, la testimonianza utile alle indagini internazionali sui metodi di detenzione in Venezuela. Sul piano legale, la liberazione non cancella nulla: le organizzazioni chiedono da anni di documentare ogni fase, dagli arresti invisibili alle visite consolari, dai trasferimenti alla restituzione dei documenti. Anche questa vicenda potrà contribuire al monitoraggio e, se necessario, alle azioni presso sedi giudiziarie internazionali, a cominciare dalla Corte penale internazionale.
In gioco, però, c’è una domanda più ampia. Nella geopolitica contemporanea i confini non sono linee ma zone d’attrito, luoghi dove il diritto può cedere all’arbitrio. Paraguachón lo ricorda: basta un timbro mancato per rimanere intrappolati. E se la liberazione di Castro accende speranza, la statistica invita alla prudenza: molti casi non trovano soluzione, o la trovano troppo tardi. La questione è politica prima che giudiziaria: come proteggere davvero i cittadini quando i diritti diventano moneta di scambio? La risposta non è mai unica e passa da diplomazia, sanzioni mirate, sostegno alle ONG, tutela consolare effettiva, cooperazione regionale.
Per il governo di Nicolás Maduro, il rilascio di Castro può avere più letture: alleggerire la pressione internazionale, inviare segnali a Parigi e alle capitali europee, ridefinire equilibri interni. La vicenda ricorda come Caracas reagisca con fermezza a ciò che percepisce come interferenza: l’episodio del gennaio 2025, con il ridimensionamento delle funzioni dell’ambasciata francese e la dura risposta del Quai d’Orsay, ne è un esempio. Ma il vero test sarà un altro: se e come cambierà la gestione dei dissensi interni e dei cittadini stranieri. Le sparizioni forzate non sono compatibili con alcun percorso di normalizzazione né con l’accesso a benefici economici o politici richiesti dalla comunità internazionale. La liberazione di Camilo Castro, oggi, è una buona notizia. La domanda che resta è se potrà mai diventare un precedente, e non l’ennesima eccezione in un sistema che continua a muoversi nel cono d’ombra del silenzio.
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