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La libertà appesa ad un filo: la storia di Ida, disabile dalla nascita

In Italia si sopravvive per miracolo, non per diritto: la storia di Ida, 71 anni, malata di SMA, è un pugno nello stomaco che squarcia il velo su un sistema che taglia, ritarda, inciampa. E intanto chiede pazienza. Ma la pazienza non paga gli assistenti, e non salva le vite

La libertà appesa ad un filo: la storia di Ida, malata di SMA

La libertà non è uguale per tutti. L’articolo 3 della Costituzione lo proclama con voce ferma, ma la realtà, specie quando si parla di disabilità, ha l’abitudine di smentire la teoria con una brutalità da cronaca nera: ostacoli economici, burocrazia che stritola, fondi insufficienti, diritti che svaniscono nella nebbia dei regolamenti regionali. È dentro questa frattura che si colloca la storia di Ida Sala, 71 anni, che convive con l’Atrofia Muscolare Spinale dalla nascita. Una donna che ha trascorso l’intera esistenza a difendere la propria autonomia — e che oggi rischia di perderla per una semplice, banale, feroce ragione: i soldi non bastano più.

Il suo racconto, contenuto in un documento che sembra una testimonianza ma è in realtà un atto d’accusa, è la fotografia nitida di un’Italia dove la Vita Indipendente delle persone con disabilità resta una conquista fragile, reversibile, costantemente esposta ai tagli e ai paradossi amministrativi. Non una storia privata, ma un simbolo nazionale.

Ida non ha avuto un’infanzia, ha avuto una sequenza di luoghi. Prima la casa dei genitori, fino ai sei anni. Poi l’istituto — un’istituzione totale ante litteram — dove trascorre tutta la scuola dell’obbligo. Non per scelta, ma perché così funzionava: la disabilità non si accompagnava, si parcheggiava. Fisioterapia, studi, un’educazione che teneva insieme il necessario e l’inammissibile.

A dodici anni ritorna in famiglia, prepara privatamente gli esami, coltiva il disegno e la pittura. Poi, ventenne, entra in una comunità autogestita dove resta trent’anni. È lì, racconta, che trova un primo seme di libertà: un luogo dove potersi immaginare adulta, capace, parte di un mondo più grande della sua disabilità.

L’arrivo della Vita Indipendente.

Gli anni ’90 portano le prime letture, le battaglie, la scoperta del movimento per la Vita Indipendente: Miriam Massari, le esperienze internazionali, l’idea radicale che le persone con disabilità potessero — e dovessero — decidere della propria vita. Non più “assistenza”, ma autodeterminazione.

Nel 1998 arriva la prima legge italiana sul diritto alla Vita Indipendente. Non una rivoluzione compiuta, ma uno spiraglio. Ed è grazie a quella legge che Ida, nel 2004, lascia la comunità e va a vivere da sola in un appartamento di edilizia popolare.

Un evento che molti considererebbero ordinario, per lei è l’inizio di tutto: “libertà di” e “libertà da”, come la definisce nel suo testo. Libertà da istituzioni, ricatti affettivi, interferenze. Libertà di ospitare persone, lavorare, uscire, amare, costruire relazioni, disporre del proprio tempo. Libertà di essere viva.

Poi arriva la tempesta: un grave problema di salute che la porta quasi in fin di vita. Il reddito di cittadinanza — unica fonte stabile per molte persone con disabilità che vivono sole — le viene tolto. L’eredità materna è stata già assorbita dai costi assistenziali. E soprattutto cresce il fabbisogno di ore di assistenza.

Ida non usa giri di parole: «Ci vorrebbe il triplo delle entrate pubbliche che mi vengono erogate per coprire le ventiquattr’ore».
Senza assistenza personale continua, l’alternativa è finire in struttura. E una struttura, per chi ha una malattia neuromuscolare complessa, non è un luogo di cura: è l’inizio della fine.

Le residenze protette non consentono la libertà di entrare e uscire, di scegliere chi vedere, di disporre del proprio corpo. Non sono pensate per garantire autonomia, ma per amministrare bisogni. Sono luoghi dove il tempo scorre come sabbia tra le dita: lento, ripetitivo, senza possibilità.

Il prezzo della libertà in Italia

Ed è qui che la storia di Ida si trasforma in un atto politico: perché il suo caso non è un’eccezione. È la norma.
Nel nostro Paese, l’assistenza personale autogestita viene finanziata con cifre che oscillano tra il simbolico e l’insufficiente. Migliaia di persone sono costrette a rinunciare alla libertà perché costa troppo. Non troppo per lo Stato — troppo per loro.

La Vita Indipendente, infatti, è un diritto riconosciuto, ma non garantito. Le ore sono poche, i fondi diseguali tra territori, i criteri cambiano da Comune a Comune, da ATS a ATS, come se la libertà valesse di più in una provincia e di meno in quella accanto. Un’Italia a macchie, dove l’autodeterminazione non è un principio universale ma una lotteria geografica.

Ida lo dice con una chiarezza che non lascia scampo: «Non si tratta di un privilegio, ma di un diritto costituzionale.
L’articolo 3 parla chiaro. L’articolo 2 parla chiaro. La Convenzione ONU parla ancora più chiaro.»

Eppure, quando i fondi si assottigliano, quando mancano le risorse, quando si chiede di vivere in modo indipendente, la risposta è la stessa: “È impossibile.”

Impossibile avere assistenti 24 ore su 24. Impossibile coprire i costi.
Impossibile evitare l’istituzionalizzazione.

Ma se è impossibile garantire la libertà a una cittadina italiana, allora è lo Stato a essere inadempiente, non lei a chiedere troppo.

La vita in struttura: una riga che non si può cancellare

Chi pensa che una residenza protetta sia semplicemente un luogo “dove si è seguiti”, non ha mai parlato con chi ci vive.
Non ha ascoltato Ida, o le migliaia di persone che come lei temono l’istituzionalizzazione più della malattia stessa.

Le strutture non sono nate per la libertà: sono nate per il contenimento. Orari, regolamenti, turni del personale, organizzazione standardizzata, sovraccarichi cronici. La persona — il suo tempo, la sua identità, le sue scelte — si riduce. Si comprime. Si adatta.

La vita diventa un corridoio. La libertà un ricordo. L’autonomia una parola che non ti riguarda più.

La Vita Indipendente non è utopia: è prassi, sperimentata da decenni in Europa e negli Stati Uniti. È economicamente sostenibile: costa quanto una struttura, spesso meno. È socialmente vantaggiosa: riduce depressione, isolamento, ricoveri inutili.

Funziona.
Ma per funzionare deve essere finanziata.

Assistenza personale continuativa, budget adeguato, gestione diretta, possibilità di assumere, di formare, di scegliere.
Non interventi spot, non contributi-tampone, non progetti di sei mesi. Libertà vera: quella che permette di vivere, non di sopravvivere.

Ida definisce la sua età “un record per chi ha la SMA”. E ha ragione. La sua lunga vita è una vittoria contro ogni statistica, ma è anche una sconfitta dello Stato, che non ha saputo, oggi come ieri, garantire continuità alla sua autonomia.

La sua richiesta — sostenere un anno di assistenza per non essere nuovamente istituzionalizzata — non è un sussurro fragile. È un grido politico. È la testimonianza di quanto questo Paese sia ancora lontano dal garantire ciò che promette.

Una raccolta fondi per restare vivi

Il paradosso è questo: una cittadina italiana deve aprire una raccolta fondi per non finire in istituto. Serve aggiungere altro?

Eppure in questa stortura c’è un punto che ribalta tutto: la solidarietà è ciò che tiene in piedi ciò che lo Stato lascia cadere. Donare non è un gesto di carità, ma un atto di resistenza civile. È decidere che la libertà di una persona — entrare e uscire di casa, scegliere chi amare, respirare senza un orario imposto — vale più dell’indifferenza generale.

Ogni euro raccolto è un frammento di autonomia restituita, un’ora di vita reale, un giorno in più sottratto alle istituzioni totali. È la dimostrazione che una comunità può fare ciò che un sistema non riesce a fare: proteggere una vita, e permetterle di restare tale.

Quando la sopravvivenza dipende dalla generosità delle persone, significa che lo Stato ha smesso di fare il suo mestiere. Ma significa anche che ciascuno di noi può decidere di non farlo a sua volta. Donare, in questo caso, non aiuta solo Ida: aiuta a tenere viva l’idea stessa di umanità.

La storia di Ida non chiede pietà. Chiede giustizia.
Chiede che la vita indipendente non sia un lusso, ma un pilastro.
Chiede che l’autonomia non venga trattata come un vizio, ma come un diritto fondamentale.

Chiede che l’Italia smetta di pretendere eroismo dalle persone con disabilità — e inizi finalmente a garantire normalità.

Perché nessuno dovrebbe essere costretto a scegliere tra una struttura che spegne la vita e una raccolta fondi che la mantiene accesa.

Eppure, oggi, questa è l’Italia. Per donare, clicca QUI.

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