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Gaza sotto la pioggia avvelenata: l’inverno che trascina via anche la speranza

Tra fango, reflui e tende spezzate, migliaia di famiglie lottano contro un’acqua che brucia la pelle e toglie il respiro. L’inverno arriva prima degli aiuti, e ogni goccia è una minaccia

Gaza sotto la pioggia avvelenata: l’inverno che trascina via anche la speranza

Gaza sotto la pioggia avvelenata: l’inverno che trascina via anche la speranza

La pozza è larga quanto una stanza e profonda quasi fino alle caviglie. Dentro, mescolati come in un inventario di ciò che resta della quotidianità, galleggiano vestiti, briciole di pane, fogli di quaderno strappati al ritmo di un’infanzia interrotta. Un bambino allunga un bastone per recuperare una coperta, e il gesto – lento, ostinato – contiene tutta la dignità possibile in un luogo che non permette altro. Poco più in là, una donna stringe al petto un piccolo bricco di metallo per l’acqua. Lo stringe come fosse un tesoro, forse l’unico che non si può lasciare andare. Perché qui non è pioggia, non veramente: è un’acqua acre, una miscela di precipitazioni e fognatura, un odore pungente che si attacca alla pelle e alla memoria.

Siamo nel cuore di Gaza City, in una tendopoli che fatica perfino a chiamarsi rifugio. Eppure la stessa scena si ripete, identica, anche a Khan Yunis e nella fascia centrale della Striscia, dove le prime piogge di metà novembre hanno aperto un capitolo nuovo e antico insieme: quello in cui il maltempo diventa moltiplicatore di fragilità, una lente che ingrandisce ogni crepa, ogni assenza, ogni ferita. Il terreno, devastato da due anni di guerra, non assorbe più nulla. Le tende si riempiono, i corridoi di fango si trasformano in canali improvvisati, le latrine tracimano. Le famiglie risalgono terrapieni di detriti per sfuggire all’acqua, ma la notte, col vento, tutto è un fruscio di teli che tremano e cedono.

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Le precipitazioni delle ultime ore hanno allagato centinaia di ripari nelle zone più densamente popolate. L’acqua piovana si fonde con i reflui delle fogne che non funzionano più da tempo, generando un cocktail che porta con sé rischi enormi: infezioni respiratorie, malattie enteriche, contaminazioni di ogni tipo.

Lo documentano i video, le immagini e i resoconti pubblicati da vari media, e lo confermano gli operatori umanitari che da mesi vivono dentro questa emergenza. L’intero settore WASH è in ginocchio: impianti di trattamento fuori servizio dal 2023, mancanza di carburante, danni strutturali, tubature distrutte. I liquami scorrono nelle strade, creano lagunaggi a cielo aperto, contaminano bacini e falde. Non è teoria: è terreno sotto i piedi.

A questa geografia della fragilità si aggiunge un numero che, da solo, pesa come un verdetto: il 93% delle tende è ormai inservibile o logorato. La Municipalità di Gaza lo ripete da giorni attraverso la voce del suo portavoce, Husni Mhanna, che mostra immagini dei campi allagati come prova di un collasso annunciato.

Le cuciture cedono, i teloni sono laceri, le basi delle tende non esistono più. È sufficiente mezz’ora di pioggia intensa perché i ripari “collassino come carta bagnata”, raccontano i residenti. E quando la casa è una struttura di plastica sottile e il pavimento è fango, non esiste margine per resistere: esiste solo il tentativo di rialzare i materassi con casse di plastica, di scavare canalette, di sollevare ciò che si può dal suolo che trema e affonda.

A Muwasi, la zona dichiarata “umanitaria” lungo la costa meridionale, la situazione è ancora più estrema. Qui si sono ammassate fino a 425.000 persone, secondo Associated Press, tutte esposte al vento salmastro, al freddo, alla salsedine che corrode i materiali più in fretta delle mani che cercano di riparare. I fossi scavati a mano diventano canali di scolo, ma nulla è mai abbastanza: senza stazioni di pompaggio, senza trattamento delle acque reflue, l’acqua non trova vie di fuga se non verso le aree più basse, dove si accumula, ristagna, porta con sé ogni forma di contaminazione.

Il rischio sanitario cresce con il meteo. Le malattie a trasmissione idrica – diarrea, scabbia, pediculosi, infezioni cutanee – erano già in aumento nei primi mesi della guerra. Oggi, con la stagione delle piogge, i focolai possono accelerare. La World Health Organization ha rilevato tracce di poliovirus nelle acque reflue nel 2024, un segnale che fa tremare le vene dei polsi. Il sovraffollamento, la promiscuità, l’assenza di latrine sicure, la gestione dei rifiuti bloccata: tutto converge verso un quadro che non lascia spazio all’ottimismo.

E quando piove, è come se l’acqua portasse via anche il lavoro delle persone. Un forno allagato significa meno pane per un intero settore del campo. Una pila di legna bagnata significa freddo, notti insonni, bambini tremanti. Nell’inverno 2024, una tempesta aveva spazzato via migliaia di tende: un precedente che oggi ritorna amplificato, più violento, più ingiusto.

Il nodo strutturale resta sempre lo stesso: una rete idrica e fognaria da ricostruire. Impianti fermi, materiali bloccati, generatori assenti, osmose inversa impossibile. E poi i rifiuti: cumuli che attraggono insetti e roditori, che ostacolano il deflusso dell’acqua e diventano un ulteriore livello di rischio in uno scenario già estremo.

I più esposti sono sempre gli stessi: gli anziani, le persone con disabilità, i bambini. Le donne capofamiglia, impegnate in code interminabili per un po’ d’acqua non contaminata. Chi vive in tende logore o edifici lesionati, sospeso tra rischio di crolli e scosse elettriche.

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Cosa servirebbe? Accessi umanitari prevedibili, carburante, tende invernali, unità abitative modulari, materiali per drenaggi, kit WASH, pompe, teloni, pavimentazioni. Servirebbero ingegneri, squadre sul campo, tempo. Ma soprattutto servirebbe spazio per agire, perché senza interventi immediati ogni perturbazione sarà un’emergenza nell’emergenza, come avverte da mesi il Norwegian Refugee Council parlando di un possibile “collasso totale” della risposta shelter.

Le piogge di novembre dicono una verità che nessuno può ignorare: che il clima, in un luogo dove l’infrastruttura è già collassata, diventa un detonatore. Che un telo in più non basta. Che senza basi drenanti, senza canalette, senza elementi minimi di ingegneria umanitaria, non esiste riparo reale. E che il “93%” non è una statistica: è la misura della distanza tra la sopravvivenza e il disastro.

Nelle immagini dall’alto, la pioggia su Gaza è una patina lucida che riflette il grigio. A terra, invece, è un mosaico di gocce e reflui che infiltra ogni spazio: stivali che non ci sono, coperte che non asciugano, cibo che si bagna, malattie che avanzano. Per chi abita in una tenda logora, ogni nuvola è una minaccia. L’inverno non aspetta le soluzioni politiche: scende, si insinua, allaga. L’urgenza è adesso, prima che l’acqua torni a cadere.

Fonti utilizzate

  • Associated Press (AP) – reportage sulle piogge a Muwasi e sulle condizioni dei campi.

  • Reuters – aggiornamenti su rischio sanitario, polio, ingressi di tende e forniture umanitarie (2024–2025).

  • Al Jazeera – testimonianze e immagini dai campi allagati (14 novembre 2025).

  • La Voce di New York – articoli e analisi sulla situazione umanitaria.

  • Corriere Tv – video e servizi su allagamenti e condizioni delle tendopoli.

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