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Esteri
15 Novembre 2025 - 11:00
Il presidente venezuelano
“Ho deciso sul Venezuela”: la frase pronunciata da Donald Trump cade come una brace in una polveriera già accesa. Tra le portaerei americane che fendono il Mar dei Caraibi e i messaggi infuocati di Nicolás Maduro, il clima è ormai quello di un pre-conflitto in cui ogni parola pesa più dei movimenti di flotta. Le luci che scivolano sulla superficie nera al largo di La Guaira — i decolli notturni dei caccia dalla più grande portaerei statunitense — sono diventati il rumore di fondo di una regione che trattiene il fiato. A Caracas, quasi in contemporanea, Maduro si affaccia in diretta tv, parla anche in inglese e sussurra un appello che è insieme misticismo politico e disperazione diplomatica: War, no. Death, no. Peace, life and love. E mentre le telecamere si spengono, dall’altra parte del continente, ai cronisti che lo incalzano, Trump lascia cadere la sua frase ambigua: “Ho preso una decisione sul Venezuela, ma non posso dirvi quale”. È quanto basta perché l’intero quadrante caraibico, già segnato da navi affondate e da almeno settanta-ottanta morti nelle operazioni anti-narcos, entri ufficialmente in una fase che ricorda gli anni più tesi della Guerra fredda.

A Washington, nelle ultime settimane, la comunicazione è diventata un gioco di specchi. Prima la smentita su eventuali attacchi di terra, poi la frenata sui colpire “obiettivi interni”, infine quel “mi sono deciso” che sembra più un equilibrio instabile che una posizione definita. È la grammatica preferita di Trump, lo stesso che in autunno ha ammesso operazioni coperte della CIA in territorio venezuelano e rivendicato raid contro imbarcazioni accusate di traffico di droga. Intanto, a Puerto Rico, tornano operativi asset strategici e la USS Gerald R. Ford — la portaerei più grande del mondo — pattuglia le acque caraibiche con un gruppo d’attacco che, per dimensioni e capacità, non ha precedenti recenti in quell’area.
Tra fine ottobre e metà novembre gli Stati Uniti hanno completato un rafforzamento che cambia gli equilibri: il gruppo d’attacco della Ford, con la sua scorta di cacciatorpediniere e capacità di superiorità aerea ed elettronica, si muove come una città galleggiante tra le isole. A terra, la base di Roosevelt Roads a Ceiba, chiusa dal 2004, riapre alla presenza militare con F-35B, MV-22 e CH-53K, segnando un ritorno strategico che va ben oltre la narrativa ufficiale contro i cartelli della droga. Le attività in mare e in aria — tra droni MQ-9, pattugliatori P-8 Poseidon e persino la presenza, secondo diverse fonti, di un sottomarino nucleare — delineano un dispositivo operativo che non è più semplice interdizione, ma una pressione costante al limite della dimostrazione di forza permanente. Le restrizioni FAA ai corridoi civili in specifiche aree, gli ISR potenziati tra Puerto Rico e le Antille Olandesi, le sortite dei B-52 appena fuori dallo spazio aereo venezuelano, contribuiscono a creare una coreografia militare che parla molto più dei comunicati della Casa Bianca.
Nella narrativa ufficiale di Washington, tutto rientra nella lotta allo “narcoterrorismo”. I raid statunitensi condotti in acque internazionali contro imbarcazioni sospette, alcuni nei Caraibi e altri nel Pacifico orientale, hanno lasciato dietro di sé un numero imprecisato di vittime, con stime convergenti che superano ormai quota settanta. Ma la Casa Bianca non ha pubblicato prove dettagliate a sostegno delle accuse e la mancanza di trasparenza alimenta critiche legali e parlamentari, anche all’interno del Partito Repubblicano. Mentre il dispositivo americano si espande, Maduro rilancia la propria narrativa: “Il Venezuela non diventerà la Gaza del Sud America”. Una frase calibrata, pronunciata nella notte tra il 14 e il 15 novembre, che evoca l’immagine più potente e temuta di questo decennio: bombardamenti, assedi, infrastrutture al collasso, commissariamento del territorio. È un messaggio indirizzato direttamente all’opinione pubblica americana, un tentativo di rompere la cornice che dipinge Caracas come hub del narcotraffico internazionale.
La risposta venezuelana non è solo retorica. La FANB ha attivato l’“Independence Plan 200”, una mobilitazione congiunta di forze terrestri, aria, marina, sistemi missilistici, radar costieri e milizia territoriale. Vladimir Padrino López, ministro della Difesa, parla di prontezza operativa elevata “in tutte le componenti”. All’ONU, Samuel Moncada invoca il Consiglio di Sicurezza affinché fermi “una catastrofe regionale”. Russia e Cina sostengono apertamente Caracas, mentre altri Paesi mantengono un profilo più prudente, consapevoli che senza una base giuridica chiara ogni azione americana rischia di aprire un precedente pericoloso.
Il pendolo comunicativo di Trump oscilla da mesi. A volte accenna dubbi su un conflitto, altre ripete che “i giorni di Maduro sono contati”. Ma dietro la retorica, la dottrina resta quella della “pressione massima”: sanzioni economiche, operazioni a bassa intensità e un dispositivo militare “over-the-horizon” pronto a colpire senza preavviso. Sul fronte economico, l’Ordine Esecutivo 14245 ha introdotto dazi del 25% per i Paesi che acquistano petrolio venezuelano, una misura indiretta ma potentissima per isolare PDVSA. È una sanzione extraterritoriale mascherata che colpisce assicurazioni, noli, raffinatori e rotte marittime, e che si innesta in un contesto di mercato già fragile, dove ogni crisi in Medio Oriente o nel Mar Rosso amplifica lo shock.
Il Venezuela, da parte sua, risponde con la dottrina della resistenza asimmetrica. Attiva batterie S-300VM, Buk-M2E e Pechora-2M, disperde asset, rafforza i radar, mobilita la Milizia Bolivariana, mentre Maduro continua a ripetere un messaggio di “pace e amore” che però coesiste con il più alto livello di allerta militare degli ultimi anni. La scelta di evocare Gaza è un tentativo di spostare la partita sul piano simbolico e umanitario, ma rischia, all’interno, di rafforzare la logica dell’assedio permanente, consolidando meccanismi di controllo politico che soffocano ogni spiraglio di mediazione.
Il resto della regione osserva con inquietudine. A Bogotá, una larga maggioranza di Paesi latinoamericani ha condannato le azioni unilaterali e chiesto un ritorno alla via diplomatica. Brasilia insiste sul diritto internazionale, mentre ai vertici della CARICOM cresce la preoccupazione che un singolo errore di calcolo — un radar che aggancia un velivolo, uno scafo che non risponde alla radio, un abbordaggio mal interpretato — possa trasformarsi in casus belli.
La frase di Trump, “ho preso una decisione”, sembra costruita per mantenere la tensione a un livello utile alla deterrenza più che per anticipare un’azione imminente. Ma in un teatro dove gli incidenti hanno già provocato decine di morti e dove il confine tra anti-narcos e operazione militare è ormai labile, l’ambiguità ha un costo crescente e rischia di diventare essa stessa un detonatore. Sul fronte opposto, l’immagine evocata da Maduro, quella di un Venezuela trasformato in una Gaza sudamericana, intercetta paure globali e tenta di spostare il baricentro morale dello scontro. Non basta però a risolvere il nodo centrale: come disinnescare una crisi in cui narcotraffico, sovranità, petrolio e politica interna si sono intrecciati al punto da formare un unico dossier esplosivo.
Se nelle prossime settimane si aprirà davvero uno spazio per la diplomazia, dipenderà da quanto le due leadership saranno disposte a contenere l’effetto delle proprie dichiarazioni. Per ora, nei Caraibi, il rombo dei turbofan continua a graffiare la notte, un suono che non annuncia ancora la guerra, ma neppure la pace.
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