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Epstein, le email bomba su Trump: il Congresso apre il vaso di veleno

Tra vanterie, presunte foto compromettenti e 2.300 messaggi mai visti prima, la Camera forza la mano: 218 firme, Grijalva sblocca il voto e Washington trema. La Casa Bianca parla di montatura, ma l’America vuole i file. Tutti

Epstein, le email bomba su Trump: il Congresso apre il vaso di veleno

Epstein, le email bomba su Trump: il Congresso apre il vaso di veleno

Una cucina con vista piscina, in una villa dove il potere entrava e usciva come fosse di casa, tra ospiti influenti e segreti che nessuno aveva davvero voglia di custodire. È lì che, secondo un’email oggi agli atti del Congresso, Jeffrey Epsteinavrebbe offerto a un giornalista “foto di Donald e ragazze in bikini nella mia cucina”. Una vanteria, un’esagerazione, o un frammento di un mosaico più oscuro? Nella stessa sequenza di scambi, il finanziere condannato per abusi sessuali scriveva: “Sono io l’unico in grado di abbatterlo”, riferendosi a Donald Trump. Il dettaglio, finito in un pacchetto di comunicazioni ora visionato a Capitol Hill, ha riacceso un dibattito che covava da mesi: la Camera dei Rappresentanti voterà la prossima settimana per imporre alla procuratrice generale Pam Bondi la pubblicazione di tutti i file Epstein in possesso del Dipartimento di Giustizia. Una decisione che, fino a poche settimane fa, sembrava destinata a restare nel cassetto.

Il passaggio è stato sbloccato da un giuramento e da un numero: 218. È la soglia necessaria per una “discharge petition”, lo strumento con cui i deputati possono aggirare la leadership d’Aula. Fino a mercoledì 12 novembre 2025 mancava una firma. Poi il giuramento della neoeletta Adelita Grijalva ha cambiato tutto: la deputata dell’Arizona, subentrata al padre Raúl Grijalva, ha firmato la petizione immediatamente dopo aver alzato la mano davanti all’emiciclo. Una mossa che ha costretto lo Speaker Mike Johnson, accusato dai democratici di aver rinviato il giuramento proprio per evitare di raggiungere il quorum, a mettere il testo in calendario “già la prossima settimana”, saltando il periodo di attesa previsto dal regolamento. La conferma è arrivata da numerose testate americane, che parlano di una svolta ormai inevitabile.

A promuovere il disegno di legge, denominato Epstein Files Transparency Act (H.R. 4405), sono il repubblicano Thomas Massie e il democratico Ro Khanna, una delle coppie bipartisan più attive nel pressing sulla trasparenza federale. L'obiettivo è semplice e allo stesso tempo dirompente: forzare la pubblicazione di “tutti i documenti e le comunicazioni” relativi a Epstein, inclusi quelli sulla sua detenzione, sulla morte avvenuta nel 2019, sui legami finanziari e sulle valutazioni interne del Dipartimento di Giustizia. La norma consente la redazione dei nomi delle vittime e dei dettagli che possano compromettere indagini in corso, ma nega esplicitamente qualsiasi copertura per ragioni di “imbarazzo, danno reputazionale o sensibilità politica”: un modo per blindare la trasparenza ed evitare l’ennesima pioggia di omissis.

Le pressioni del Congresso non arrivano nel vuoto. Tra il 2010 e il 2019, Epstein e la sua rete hanno scambiato migliaia di email, parte delle quali è ora nelle mani dei comitati della Camera. Secondo diverse testate statunitensi, esiste una “cache” di oltre 2.300 messaggi, nei quali il nome di Donald Trump ricorre con frequenza: talvolta per articoli inoltrati o commenti mondani, talvolta in riferimento a frequentazioni passate dell’ambiente di Mar-a-Lago e delle feste dell’élite transatlantica. Finora non emergono prove documentali di reati da parte di Trump nei materiali resi pubblici, ma spuntano frasi che alimentano l’idea di una possibile leva reputazionale — reale o millantata — da parte di Epstein. In uno scambio il finanziere afferma di essere “l’unico in grado di abbatterlo”. In un altro, del 2018, mentre cresceva la pressione mediatica sul patteggiamento del 2008, attribuisce a “chi vuole abbattere Trump” una campagna “pazza”, ribadendo di avere “la chiave” per farlo. Nel 2015 avrebbe offerto al giornalista del New York Times Landon Thomas Jr. presunte “foto di Donald e ragazze in bikini nella mia cucina”; Thomas ha precisato di non aver mai ricevuto alcuna immagine né di aver potuto verificarne l’esistenza.

La Casa Bianca ha bollato queste rivelazioni come “operazione politica”, ricordando che Donald Trump sostiene di aver “allontanato Epstein da Mar-a-Lago” anni fa. In parallelo, ricostruzioni giornalistiche indicano che la vittima non nominata in alcuni scambi sarebbe stata identificata come Virginia Giuffre: una notizia rivendicata da un’email della Casa Bianca a un settimanale statunitense, che però precisa di non aver potuto verificarla autonomamente. È un terreno scivoloso: la cronaca offre frammenti importanti, ma il quadro resta incompleto e in evoluzione.

La posta politica è elevatissima. La base MAGA e molti commentatori conservatori chiedono da mesi la pubblicazione integrale dei file Epstein. La Casa Bianca e una parte della leadership repubblicana temono invece che un rilascio senza filtri possa detonare effetti imprevedibili su figure di primo piano del partito. La decisione dello Speaker Johnson di accelerare il voto sarebbe maturata, secondo ricostruzioni della CNN, quando è apparso chiaro che non c’erano più i numeri per contenere la spinta trasversale verso la trasparenza. Le 218 firme raccolte includono tutti i democratici e quattro repubblicani — oltre a Massie, Lauren Boebert, Marjorie Taylor Greene e Nancy Mace — ma le stime parlano di “decine di deputati del GOP” pronti a votare a favore in Aula. Alcune valutazioni arrivano a ipotizzare fino a un centinaio di voti repubblicani: un numero che non solo garantirebbe l’approvazione, ma potrebbe avvicinare la maggioranza “veto-proof” dei due terzi, circa 290 voti, capace di mettere pressione sul Senato e sulla Casa Bianca.

Il ruolo di Adelita Grijalva è diventato simbolico. Eletta il 23 settembre 2025, è stata insediata solo il 12 novembre, dopo lo shutdown più lungo della storia americana. I democratici accusano Johnson di aver ritardato l’ingresso proprio per impedire il raggiungimento delle 218 firme. Appena presa la parola in Aula, Grijalva ha ringraziato alcune survivors presenti tra il pubblico, ha firmato la petizione e ha dichiarato: “La giustizia non può attendere un giorno in più”. Il suo arrivo ha portato la maggioranza numerica a 219–214, chiudendo di fatto la partita.

Trump

Il provvedimento obbliga la procuratrice generale Pam Bondi a rilasciare tutti i documenti e le comunicazioni del DoJ su Epstein, inclusi quelli riguardanti la sorveglianza e la morte in cella nel 2019. È prevista la possibilità di oscurare solo ciò che potrebbe identificare le vittime o danneggiare indagini ancora aperte, mentre sono vietate redazioni per ragioni politiche o reputazionali. Le bozze precedenti parlavano di tempi stringenti, fino a 30 giorni, e di possibili sanzioni in caso di inadempienza. Restano esclusi gli atti coperti da grand jury senza un ordine giudiziario, ma il Dipartimento di Giustizia verrebbe invitato a chiedere lo sblocco dei sigilli quando possibile. La percezione pubblica di opacità resta forte: un sondaggio citato da vari media indica che oltre il 60% degli americani considera insufficiente la trasparenza governativa sul caso.

Il nodo del “ricatto” resta il più delicato. Esistono email in cui Epstein attribuisce a sé stesso una sorta di potere reputazionale su Trump; ci sono riferimenti a “foto” potenzialmente compromettenti, mai viste né verificate; ricorrono contesti mondani, piscine e frequentazioni con personaggi come il talent scout Jean-Luc Brunel, poi arrestato in Francia e morto in carcere. Una parte della stampa parla di identificazioni “sensibili” di una vittima, ma senza conferme indipendenti. La conclusione più prudente è che Epstein facesse largo uso di allusioni, millanterie e ambiguità per aumentare la propria influenza. Che questo si traducesse in un vero ricatto ai danni di Trump non è — nei documenti pubblici — dimostrato. Ma il potenziale politico del sospetto pesa quanto e forse più dei fatti accertati.

Dopo l’eventuale via libera della Camera, la battaglia si sposterà al Senato, dove la maggioranza repubblicana 53–47 rende complesso raggiungere i 60 voti necessari per superare eventuali ostruzionismi. Il leader John Thune ha evitato di prendere impegni, ricordando che il DoJ ha già pubblicato “tonnellate di documenti”. In ultima istanza, la legge dovrebbe comunque passare dalla firma della procuratrice generale e del Presidente. La Casa Bianca lascia intendere che Donald Trump porrebbe il veto a un provvedimento considerato “strumentale”. Per superarlo servirebbero i due terzi in entrambe le Camere: una soglia che la storia politica recente varca di rado.

Al di là dei giochi di potere, resta la domanda del Paese reale: più del 70% degli americani chiede trasparenza totale, con l’ovvia protezione delle vittime. Dopo anni di mezze verità, reticenze e coincidenze opache, l’idea di un pacchetto documentale completo è vista come un test decisivo per la fiducia nelle istituzioni. Il calendario fissato da Johnson indica un voto tra il 18 e il 20 novembre, con il fronte bipartisan in crescita e scenari che prevedono ulteriori defezioni nel GOP. Nel frattempo, le commissioni hanno già iniziato a diffondere nuove tranche di materiali: oltre 20.000 pagine rilasciate da Oversight e migliaia di email in revisione.

Il “caso Epstein” non è solo un romanzo nero di abusi, protezioni e silenzi eccellenti. È un esame per lo Stato di diritto: capire fino a che punto la politica americana sappia essere trasparente senza sacrificare la tutela delle vittime, le indagini e la privacy non necessaria. L’H.R. 4405 sembra proporre un equilibrio ragionevole: pubblicare quasi tutto, nascondere solo ciò che serve davvero alla giustizia. Il resto — il peso politico, la frattura interna al GOP, le accuse incrociate — è rumore di fondo. Se davvero Jeffrey Epstein era “l’unico in grado di abbattere Donald Trump”, lo diranno i documenti. E sarà compito di giornalisti, parlamentari e giudici distinguere le vanterie dalle prove. È lì che passa il confine tra una democrazia matura e un Paese in balia del sospetto.

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