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14 Novembre 2025 - 06:38
Torino scava, le imprese falliscono, la metro resta ferma
Da Fermi a Cascine Vica doveva essere la dimostrazione che Torino, quando vuole, sa allungare il passo. Un gesto semplice: quattro fermate, un po’ di cemento, tecnologia già collaudata e una città Metropolitana che fa il suo dovere. Ci si poteva perfino illudere che, per una volta, un’infrastruttura pubblica filasse liscia come i convogli che un giorno l’avrebbero percorsa. E invece no. Perché a Torino, quando si parla di grandi opere, la realtà è sempre la stessa: promessa sprint, esito lumaca.
E così il prolungamento della linea 1 verso ovest, che avrebbe dovuto essere il simbolo della rinascita urbana, oggi è il simbolo di qualcos’altro: dell’ennesima storia italiana che parte con un rendering scintillante e finisce in tribunale, tra faldoni, debiti, creditori e comunicati che sembrano scritti per non dire nulla.
Il punto è semplice: la Italiana Costruzioni Spa, la società che dovrebbe portare avanti i lavori, è in piena tempesta economico-finanziaria. Non una pioggerellina passeggera, ma una burrasca seria. La controllata ICI Spa, che ha in mano l’appalto vero e proprio, ha chiesto il concordato preventivo. Tradotto: soldi non ce ne sono, ma si chiede gentilmente ai creditori di aspettare e sperare. L’elenco di chi deve incassare è da capogiro: più di mille nomi — imprese, professionisti, fornitori — tutti messi in fila, come se stessero aspettando il biglietto della metro che forse non prenderanno mai. Parliamo di 24 milioni di debiti, più una montagna di garanzie per altre società per un totale che raggiunge quasi i 20 milioni. E poi il patrimonio netto, che invece di essere una base solida è un cratere da 25 milionidi rosso.
E se qualcuno si illude che cifre simili siano incidenti di percorso, basta un’occhiata ai cantieri per capire che qui non è inciampato un operaio: è crollato l’impalcato dell’intero progetto.
Perché sì, la galleria sotto terra c’è: 3,4 chilometri di tunnel già perforati, un’opera enorme che in superficie fa perfino impressione. Un lavoro che ha permesso a un’altra ditta di posare i binari, così almeno la narrazione ufficiale può dire che “qualcosa va avanti”. Ma basta risalire in superficie per capirlo: quelle quattro stazioni che dovevano essere il fiore all’occhiello della linea ovest sono rimaste allo stadio di scheletro. Due sono al 70%, altre due sono “molto più indietro”, espressione che in Italia significa tutto e niente, ma in genere si traduce in: “Non sappiamo quando, non sappiamo come, non sappiamo se”.
Il cronoprogramma originale? Roba per nostalgici. Chi lo sfoglia oggi sembra uno di quei collezionisti che sfogliano vecchie figurine Panini, ricordando un campionato che non tornerà mai più. La verità è che il cantiere è inchiodato: fisso, immobile, immutabile. Come se la metro fosse vittima di una maledizione: scavata sotto terra, evaporata sopra.
E allora si guarda al tribunale di Roma, come se fosse un nuovo oracolo. Il 16 dicembre si deciderà se la ICI potrà provare a risanare i suoi debiti. Nel migliore dei casi, tornerà a lavorare, con tempi che già oggi non stanno più in piedi. Nel peggiore? Liquidazione, addio, arrivederci e grazie. InfraTo dovrà rifare tutto: nuovo bando, nuova gara, nuova assegnazione. E quando si ricomincia da zero, in Italia, non si torna mai davvero al punto di partenza: si riparte ancora più indietro.
Per capirci: le due stazioni Lingotto–Bengasi, alla fine, hanno richiesto 11 anni. Undici. Che, per chi non lo ricordasse, è lo stesso tempo che impiega un bambino a finire le scuole elementari e medie. Ma qui non parliamo di bambini: parliamo della metropolitana di una delle principali città italiane.
E così Torino si ritrova nell’ennesima situazione paradossale: una grande opera che c’è ma non c’è, un cantiere che avanza da una parte e arretra dall’altra, un appalto che vive o muore in base ai bilanci di una società che avrebbe dovuto essere il “colosso affidabile” dell’edilizia pubblica. Italiana Costruzioni, del resto, ha lavorato su progetti pesanti: Rebibbia, il centro di ricerca Ri.Med, il mercato ortofrutticolo di Milano, perfino una base militare statunitense. Un curriculum pieno di titoli altisonanti, utili da inserire nelle brochure.
Ma i titoli non pagano i debiti. E le grandi opere, quando si fermano, non aspettano: si deteriorano, si incancreniscono, diventano monumenti all’inefficienza.
Il risultato? Un prolungamento della metro che doveva essere il simbolo del futuro e rischia di diventare il monumento perfetto del presente: un’Italia in cui si progetta con entusiasmo, si inaugura con le foto di rito, e poi si finisce a inseguire aziende in crisi, tribunali che decidono, cantieri che scivolano indietro e cittadini che aspettano un treno che non arriva mai.
Se qualcuno cercava un’immagine per descrivere lo stato delle infrastrutture nel 2025, eccola servita: una galleria pronta, una città che guarda l’orologio, e quattro stazioni che sembrano chiedere scusa per essere ferme. Ma ferme restano. E chissà per quanto.

La Linea 1 della metropolitana di Torino è oggi l’ossatura essenziale del trasporto urbano. Gestita da Gtt, si estende per 15,1 chilometri, attraversa la città con 23 stazioni e collega Collegno a Piazza Bengasi in 25 minuti netti. È una metropolitana automatica leggera, senza conducente, tra le prime in Italia ad adottare questo sistema.
Il tracciato attuale parte dal capolinea Fermi, nel territorio di Collegno, e si spinge fino alla periferia sud, a Piazza Bengasi, dopo aver servito le principali direttrici cittadine.
Accanto all’infrastruttura esistente, resta aperto il capitolo più complesso: il prolungamento verso ovest, da Fermi a Cascine Vica, nel comune di Rivoli. Una tratta da 3,4 chilometri, pensata con quattro nuove stazioni – Certosa, Collegno Centro, Leumann, Cascine Vica – per un costo stimato di 328 milioni di euro. L’opera ha ricevuto nel tempo ulteriori finanziamenti, inclusi 8,5 milioni recenti destinati a garantirne il completamento.
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