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“Incendiano per farci andare via”: la nuova ondata di violenze dei coloni in Cisgiordania

Un raid organizzato, centinaia di aggressioni in un solo mese, condanne senza effetti e un’intera area industriale ridotta in cenere: la Cisgiordania entra nella stagione delle violenze senza freni, mentre perfino Israele ammette che una “linea rossa” è stata oltrepassata

“Incendiano per farci andare via”: la nuova ondata di violenze dei coloni in Cisgiordania

“Incendiano per farci andare via”: la nuova ondata di violenze dei coloni in Cisgiordania

Un odore acre di plastica bruciata resta sospeso nell’aria della zona industriale di Beit Lid. I telai delle auto anneriti, i capannoni sventrati, la cenere che scricchiola sotto le scarpe: è la scena di un luogo che fino a poche ore prima produceva, commerciava, muoveva merci. Ora è un mosaico di carburante colato, ferraglia contorta e silenzi brevi, interrotti solo dalle voci di chi tenta di capire cosa sia rimasto. “Sono arrivati di corsa, incappucciati. Hanno colpito tutto: persone, macchine, e perfino i camion della lattiera”, racconta un lavoratore palestinese indicando le carcasse di due mezzi. Martedì, nel cuore della Cisgiordania, decine di coloni hanno fatto irruzione tra Beit Lid e Deir Sharaf, incendiando veicoli, devastando officine, aggredendo chiunque cercasse di opporsi. Un’ondata di violenza così eclatante da spingere il presidente israeliano Isaac Herzog a una condanna pubblica, definendo quell’assalto “scioccante e grave”. Ma ciò che è accaduto qui non è un episodio isolato: è solo l’ultimo frammento di un’escalation documentata dai dati delle Nazioni Unite, che nel mese di ottobre 2024 registrano 264 attacchi compiuti da coloni israeliani contro palestinesi in Cisgiordania, il valore più alto da quando, nel 2006, l’OCHA ha iniziato a monitorare questi eventi. Una media di quasi otto aggressioni al giorno, segno di un fenomeno strutturato, non più riconducibile alla retorica del gesto “di pochi estremisti”.

A Beit Lid la dinamica è stata tanto rapida quanto organizzata. I gruppi sono arrivati in più ondate, molti con il volto coperto; hanno incendiato auto e magazzini, attaccato civili e, secondo diverse testimonianze, anche militari israeliani intervenuti per tentare di sedare la situazione. Almeno quattro palestinesi sono rimasti feriti; quattro coloni sono stati fermati, ma gran parte dei partecipanti sarebbe stata rilasciata nelle ore successive. A colpire, oltre alla brutalità, è stata la natura dei bersagli: tra i danni compaiono anche i camion refrigerati di una grande azienda lattiero-casearia che serve l’intera area. Un attacco non impulsivo ma dimostrativo, un modo per dire “possiamo colpire dove vogliamo”, anche laddove circola merce destinata tanto ai palestinesi quanto agli israeliani.

La reazione istituzionale è arrivata immediatamente. Herzog ha parlato di “manipolo violento e pericoloso” che ha “oltrepassato una linea rossa”, chiedendo allo Stato di intervenire con decisione. Anche i vertici militari, incluso il Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir, hanno definito i fatti “criminali”, sottolineando che simili azioni distolgono l’esercito dalle sue reali funzioni di sicurezza. Nelle ultime settimane, fonti militari hanno fatto trapelare l’emissione di circa trenta ordini restrittivi contro individui sospettati di aver partecipato a episodi di violenza, misure che vanno dal divieto di accesso alla Cisgiordania agli arresti domiciliari. Lo stesso comando centrale dell’IDF ha parlato di un numero “insolitamente alto” di partecipanti ai disordini nell’area di Tulkarem, stimato attorno al centinaio. Un dettaglio che dà la misura di un fenomeno impossibile da derubricare come la devianza di gruppi marginali.

I numeri compilati dall’OCHA rendono più chiaro ciò che le testimonianze raccontano con la forza delle immagini. Nel 2024 la stagione della raccolta delle olive ha coinciso con un picco di aggressioni: furti di cassette, incendi, taglio di alberi, colpi d’arma da fuoco, assalti ai contadini nei terrazzamenti. In molti casi i rapporti umanitari documentano la presenza o l’accompagnamento delle forze di sicurezza israeliane durante gli attacchi, un elemento che, pur variando da zona a zona, alimenta nelle comunità palestinesi la percezione di una copertura implicita o di una sostanziale impunità. Una percezione che trova riscontro anche nei dati della ONG israeliana Yesh Din: circa il 94% dei fascicoli aperti per crimini ideologici commessi da civili israeliani contro palestinesi in Cisgiordania si conclude senza imputazioni, e solo il 3% porta a una condanna. Sono percentuali stabili da quasi vent’anni, indice di una difficoltà investigativa radicata e non di una contingenza momentanea. Non stupisce quindi che sempre più vittime, in alcuni anni più della metà, rinuncino a presentare denuncia, convinte che nulla cambierà.

In questo clima, la violenza dei coloni agisce come un meccanismo di pressione quotidiana. Beit Lid è un esempio particolarmente evidente perché ha preso di mira una zona industriale, ma altrove la strategia è più lenta e capillare: blocchi stradali improvvisi, pattuglie di civili armati ai margini dei villaggi, nuovi avamposti che spuntano nei campi come tende, container o recinzioni e che, una volta installati, diventano piattaforme da cui partono nuove ronde. Ogni autunno i contadini si trovano a difendere il raccolto come se fosse una linea del fronte, con l’ulivo che da simbolo identitario diventa anche luogo di rischio. Colpire un uliveto significa colpire memoria, reddito, futuro; colpire una filiera industriale, come a Beit Lid, significa minacciare una struttura economica che travalica i confini etnici e politici. È un salto di qualità che ha allarmato non solo le comunità palestinesi ma anche segmenti dell’opinione pubblica israeliana, perché intacca asset condivisi e sfiora la stessa tenuta dell’apparato di sicurezza.

Sul piano politico la contraddizione è evidente. L’esercito e la presidenza israeliana condannano le violenze, ma all’interno del governo siedono figure di primo piano del movimento dei coloni, alcune delle quali hanno espresso in passato posizioni favorevoli all’espansione degli insediamenti. Le organizzazioni per i diritti umani sottolineano da tempo come questa ambivalenza renda più difficile un’azione repressiva coerente sul terreno e contribuisca a una confusione di ruoli tra chi dovrebbe garantire la sicurezza e chi invece sostiene, apertamente o in modo più sfumato, la crescita degli avamposti.

Nel frattempo, la geografia fisica e politica della Cisgiordania cambia. Oltre mezzo milione di coloni israeliani vive oggi nella West Bank, senza contare Gerusalemme Est. Gli insediamenti sono considerati illegali dal diritto internazionale, un principio ribadito da Nazioni Unite e Unione Europea, ma contestato da Israele. La loro espansione frammenta sempre più lo spazio palestinese, sottrae continuità territoriale e alimenta tensioni che difficilmente si possono contenere con misure sporadiche. La violenza di gruppi radicali non è un fenomeno separato da questa dinamica: ne accelera il ritmo, crea vuoti antropici, spinge famiglie a lasciare villaggi isolati. In alcune aree rurali e comunità beduine, la pressione quotidiana ha prodotto negli ultimi anni veri e propri sfollamenti, spesso senza alcun ordine formale, solo attraverso la costanza della paura.

Anche la risposta internazionale appare insufficiente. Le condanne occidentali si ripetono, così come le richieste dell’ONU di garantire protezione ai civili e di smantellare gli avamposti illegali, ma sul terreno la situazione cambia poco. I comitati popolari palestinesi raccontano che gli attacchi continuano, talvolta con una cadenza ancora più frequente, mentre gli osservatori internazionali non sempre riescono a raggiungere le aree più esposte. La raccolta delle olive, che dura poche settimane ma vale economicamente un anno intero, resta uno dei momenti più vulnerabili, e senza scorte dedicate o corridoi sicuri ogni intervento istituzionale rischia di arrivare sempre dopo i danni.

L’episodio di Beit Lid è stato percepito come un campanello d’allarme più forte degli altri proprio perché ha colpito un nervo economico. Quando un raid interrompe non solo la quotidianità palestinese ma anche processi logistici che coinvolgono l’intero sistema produttivo, la narrazione del “problema locale” non regge più. La violenza diventa un fattore di rischio complessivo, capace di destabilizzare anche la società israeliana, e costringe le istituzioni a esporsi con toni che raramente vengono adottati per episodi simili.

Nella zona industriale ancora impregnata di fumo, tra lamiere fredde e odore acre, la scena di Beit Lid appare come la sintesi di questa fase storica: gruppi coordinati di civili armati, bersagli multipli scelti per massimizzare la paura, forze di sicurezza che reagiscono ma spesso non prevengono, istituzioni che condannano ma faticano a contenere. I dati record dell’ottobre 2024 non sono un lampo statistico: sono il segnale che la Cisgiordania è entrata in una stagione più dura, più esplicita, più difficile da ricomporre. E quando perfino il presidente di Israele parla di una “linea rossa oltrepassata”, significa che ignorare questa escalation non è più possibile.

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