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Trump spegne lo shutdown più lungo della storia: 43 giorni di caos, debiti e voli cancellati

Il presidente firma nella notte il provvedimento “ponte” dopo il voto risicato della Camera. Sei democratici rompono le righe, due repubblicani si sfilano. Uffici federali riaperti, stipendi arretrati in arrivo, ma la guerra sui sussidi ACA è solo rinviata a dicembre

Trump

Trump e il ritorno al potere: promesse audaci e una leadership sempre sopra le righe.

C’erano ancora le luci basse nello Studio Ovale quando Donald Trump ha apposto la sua firma sotto il provvedimento che riapre i rubinetti della spesa federale. Fuori, a Washington, gli uffici di agenzie grandi e piccole erano rimasti per settimane in quella sospensione innaturale che solo lo shutdown sa creare: corridoi vuoti, telefoni muti, messaggi automatici che rimbalzavano da una casella all’altra. Negli aeroporti, intanto, i tabelloni continuavano a lampeggiare ritardi e cancellazioni, come un metronomo dell’impasse. Con quella penna calata sulla carta, nella tarda serata del 12 novembre 2025, il presidente ha messo fine a 43 giorni di paralisi federale, il più lungo blocco della storia americana. Un epilogo arrivato poche ore dopo il voto della Camera: 222 sì contro 209 no, una maggioranza risicata ma sufficiente a rimettere in moto la macchina statale. Sei deputati democratici hanno attraversato l’aula per votare con i repubblicani; due repubblicani hanno fatto il percorso inverso, come in un controcanto politico che racconta più di mille dichiarazioni.

Il provvedimento che ha superato il Congresso è un “ponte” costruito in fretta ma con basi abbastanza larghe da reggere i prossimi mesi. Proroga i finanziamenti per la quasi totalità del governo fino al 30 gennaio 2026, data indicata nei documenti semplicemente come “30 gennaio”: quel che basta per evitare un nuovo stop nel cuore dell’inverno. Alcuni capitoli, tra cui Agricoltura, Costruzioni militari, Affari dei veterani e Legislativo, vengono invece finanziati per l’intero anno fiscale, assicurando stabilità agli apparati più sensibili. I buoni alimentari del programma SNAP vengono rifinanziati fino a settembre 2026, una misura cruciale per milioni di famiglie, mentre il personale federale non solo vede annullati i licenziamenti avviati durante il blocco, ma ottiene anche il pagamento degli arretrati già nel primo ciclo utile. Nel testo compare però anche una clausola controversa: consente ai senatori di citare in giudizio le agenzie federali in caso di accesso non notificato ai loro dati, con risarcimenti potenziali fino a mezzo milione di dollari per violazione. Un dispositivo che ha già acceso il dibattito dei costituzionalisti.

Sul tema più infuocato, l’estensione delle agevolazioni dell’Affordable Care Act sui premi assicurativi in scadenza a fine anno, il compromesso è stato fragile sin dall’inizio: ai democratici arriva soltanto una promessa di voto in Senato entro metà dicembre. Nessuna garanzia, invece, alla Camera, dove Mike Johnson dovrà gestire un gruppo repubblicano galvanizzato dalla prova di forza e poco incline a concedere altro terreno. I progressisti lo considerano un arretramento, i repubblicani la conferma che la pressione ha funzionato. L’intesa era stata delineata in Senato all’inizio della settimana, con 60 voti contro 40, dopo trattative serrate tra i leader repubblicani e un manipolo di democratici e un indipendente. La Camera è tornata in sessione per chiudere il cerchio con il voto serale, immediatamente seguito dalla firma del presidente.

Quarantatré giorni di shutdown equivalgono a un sesto dell’anno fiscale lasciato in apnea. E l’impatto è stato visibile su ogni fronte. I servizi essenziali non si sono mai fermati, ma la riduzione del personale ha messo in difficoltà il controllo del traffico aereo e la TSA, moltiplicando code, rallentamenti e cancellazioni nei voli: la normalità non tornerà in un giorno. Sul welfare, la stretta di cassa ha rallentato prestazioni e pratiche amministrative, con sportelli agricoli a singhiozzo, parchi nazionali chiusi o accessibili solo parzialmente, comunità rurali senza punti di riferimento. L’economia ha assorbito un colpo temporaneo, ma non indolore: i principali osservatori stimano una perdita complessiva intorno agli 11 miliardi di dollari tra attività rinviate, consumi compressi e produttività sfumata. E poi c’è la dimensione umana, quella che non finisce nelle tabelle: centinaia di migliaia di dipendenti federali senza stipendio per settimane, altrettanti costretti a lavorare senza retribuzione, migliaia di contratti esterni sospesi con effetti a catena su fornitori e piccole imprese, famiglie già fragili costrette alle banche alimentari o a debiti d’emergenza.

Il dato politico più eloquente resta però la matematica del voto. Il 222 a 209 della Camera racchiude due anomalie opposte. I sei deputati democratici che hanno rotto le righe – Henry Cuellar, Don Davis, Adam Gray, Jared Golden, Marie Gluesenkamp Perez, Tom Suozzi – l’hanno fatto per riaprire i servizi essenziali e garantire SNAP e stipendi, pur lamentando l’assenza del rinnovo dei sussidi ACA. Dall’altro lato, due repubblicani – Thomas Massie e Greg Steube – hanno votato contro, ribadendo la diffidenza dell’ala più rigida verso qualunque compromesso che non preveda tagli strutturali immediati. Al Senato, il blocco decisivo di otto democratici e dell’indipendente Angus King ha scelto di superare lo stallo convinto che trascinare lo scontro avrebbe esasperato ulteriormente lavoratori e utenti. Il leader repubblicano John Thune ha garantito la sponda politica del voto “promesso” sull’ACA, pur sapendo che una promessa non è un esito.

Il cuore del conflitto resta, inevitabilmente, la sanità. L’Affordable Care Act è da anni la faglia su cui si consumano le crisi americane: questa volta il nodo riguarda i crediti d’imposta potenziati, che abbassano i premi per milioni di assicurati e che scadono a fine 2025. I democratici volevano inserirne il rinnovo direttamente nel pacchetto di spesa; i repubblicani hanno risposto che il tema va affrontato separatamente e dentro una riforma più ampia. Il risultato è un compromesso sospeso: finanziamenti oggi, resa dei conti a dicembre. Se il voto in Senato dovesse sfumare, i premi salirebbero proprio all’inizio della nuova stagione assicurativa, con un impatto politico potenzialmente devastante. Il leader democratico alla Camera, Hakeem Jeffries, ha già chiarito che se i premi aumenteranno la responsabilità sarà tutta repubblicana.

Nel discorso successivo alla firma, Donald Trump ha ringraziato i leader repubblicani e i democratici che hanno votato a favore, ma non ha rinunciato alla consueta torsione retorica: la colpa dello stallo, ha detto, è del Partito Democratico. La Casa Bianca ha presentato la chiusura come un sacrificio necessario per rimettere in ordine la spesa federale, accelerare una riorganizzazione ampia delle agenzie e imporre una linea più dura sull’immigrazione. Allo stesso tempo, il presidente ha promesso che uno shutdown simile “non deve più ripetersi”, una frase che suona insieme come un invito al Congresso a negoziare con più rapidità e come un monito politico in vista delle midterm del 2026.

Resta comunque un groviglio di dossier aperti. Il 30 gennaio è dietro l’angolo e senza un accordo su pacchetti di stanziamenti più ampi la minaccia di un nuovo blackout federale tornerà puntuale. Le agevolazioni ACA rappresentano il vero banco di prova: il voto atteso al Senato entro metà dicembre è l’appuntamento che definirà gli equilibri di tutto il 2026. La clausola sui ricorsi dei senatori contro le agenzie potrebbe essere stralciata in fretta, come lasciato intendere dallo stesso Mike Johnson, per evitare un contenzioso che rischia di aprire una frattura istituzionale. E mentre la FAA e la TSA tentano di ricalibrare organici e turni dopo settimane di stress, le compagnie aeree avvertono che serviranno giorni – forse settimane – per tornare a una piena normalità. Gli uffici federali riaprono, i fascicoli riprendono il loro percorso, i lavoratori vedranno gli arretrati già dal prossimo ciclo di pagamento, i parchi nazionali rimettono in moto manutenzione e accoglienza.

Lo shutdown appena concluso lascia tre lezioni non scritte ma evidenti. La prima è che il braccio di ferro come metodo ha un costo immediato sulla vita reale, e gli americani raramente premiano chi usa servizi essenziali come ostaggi. La seconda è che gli accordi trasversali esistono, ma nascono solo quando la pressione sociale supera la convenienza del calcolo politico; lo hanno dimostrato i senatori e i deputati che hanno rotto le righe. La terza è che il conflitto strutturale su sanità e spesa pubblica non è stato risolto, ma soltanto rinviato: la promessa di un voto sull’ACA è il minimo sindacale per guadagnare tempo.

La cronologia dello scontro è già materiale per i futuri manuali di politica americana: tutto inizia a fine settembre, con il fallimento dell’intesa sulla legge di spesa e lo stop a gran parte dei fondi dal 1° ottobre; ottobre scorre tra posizioni irrigidite, voli cancellati e la minaccia della Casa Bianca di utilizzare i licenziamenti nel settore federale come strumento di pressione; l’accordo prende forma in Senato il 9 novembre, trova i suoi numeri a inizio settimana e arriva alla Camera il 12 novembre, quando l’aula viene richiamata per il voto finale che apre la strada alla firma serale del presidente.

Le prossime sei settimane saranno un banco di prova. Le commissioni dovranno trasformare il ponte in appropriazioni più stabili. Il dossier sanitario arriverà al voto di dicembre in un clima già carico. La clausola sui ricorsi potrebbe essere eliminata per prevenire conflitti istituzionali. La FAA e la TSA dovranno smaltire le conseguenze del caos accumulato, mentre gli uffici federali ricostruiranno ritmi e procedure, sapendo che non tutto il tessuto dei contratti esterni potrà recuperare le perdite subite.

La chiusura record del 2025 rischia di lasciare cicatrici più profonde dei numeri. Per settimane, milioni di americani hanno toccato con mano la fragilità di un sistema che può bloccarsi non su questioni tecniche, ma su conflitti eminentemente politici. La fiducia nelle istituzioni – Casa Bianca, Congresso, agenzie – è una valuta che si logora più in fretta di quanto si ricostruisca. Ora la responsabilità ricade su entrambi i partiti: i repubblicani devono dimostrare che la disciplina di bilancio non equivale a tenere in ostaggio i servizi pubblici; i democratici devono trovare strumenti di protezione per i più vulnerabili evitando nuovi stalli.

Per ora, l’immagine che resta è quella di un presidente che, a tarda sera, firma una legge attesa da milioni di lavoratori e famiglie, mentre un Congresso logorato dalla tensione sceglie comunque di riaccendere le luci. Da domani torneranno gli stipendi, ripartiranno pratiche e cantieri, decolleranno i voli. Ma il vero test sarà un altro: impedire che tra 43 giorni la politica americana si ritrovi, di nuovo, davanti allo stesso copione.

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