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14 Novembre 2025 - 03:00
La BBC chiede scusa a Trump, ma rifiuta il miliardo: il caso Panorama scuote Londra e Washington
L’ultima cosa che ti aspetti di vedere recapitata alla Casa Bianca in una mattina di metà novembre è una lettera su carta intestata BBC: poche righe, un’ammissione limpida di errore e le “scuse personali” del presidente del board, Samir Shah, indirizzate al Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Succede il 13 novembre 2025, e succede per un documentario di “Panorama” che, montando in modo errato parti del discorso del 6 gennaio 2021, ha “dato l’impressione” che Trump avesse lanciato un appello diretto alla violenza. Le scuse arrivano, ma l’assegno no: la BBC respinge la richiesta di risarcimento e ribadisce che “non esiste base per una causa per diffamazione”. Intanto, sullo sfondo, resta la minaccia di un’azione legale da almeno un miliardo di dollari, firmata dall’avvocato di Trump, Alejandro Brito, che pretende una rettifica integrale. La domanda che rimbalza tra Londra e Washington è semplice: queste scuse riusciranno a spegnere la miccia? Al momento, niente lascia pensare a una soluzione rapida.
Al centro della tempesta c’è un episodio di Panorama andato in onda nei giorni immediatamente precedenti alle elezioni presidenziali USA del 2024, intitolato “Trump: A Second Chance?”. Nel film, estratti del discorso del 6 gennaio vengono accostati nonostante quasi un’ora di distanza tra una frase e l’altra, tagliando nel mezzo proprio quei passaggi in cui il presidente invitava a protestare “in modo pacifico e patriottico”. La BBC ha riconosciuto che il risultato è stato “fuorviante”: un montaggio che, per come è stato assemblato, ha alterato la percezione del discorso. L’episodio è stato rimosso dalle piattaforme e non verrà ritrasmesso. L’emittente insiste però su un punto: l’errore è stato involontario, e l’assenza di volontà diffamatoria – in particolare secondo gli standard statunitensi dell’“actual malice” – impedisce di parlare di calunnia.

Tim Davie
La vicenda non si è limitata alle scuse ufficiali. Nel giro di pochi giorni sono arrivate le dimissioni del Direttore generale Tim Davie e della responsabile di BBC News, Deborah Turness. Entrambi hanno riconosciuto la gravità dell’errore, definito “costoso”, ma senza concedere l’idea di una “parzialità istituzionale”. A far precipitare la situazione è stato un memo interno e un rapporto da whistleblower, firmato dall’ex consigliere agli standard editoriali Michael Prescott e pubblicato dal Telegraph, che denunciava il montaggio ingannevole e segnalava altri episodi critici dentro la redazione. La pressione è esplosa: politica, interna, internazionale. Nessuno, a Londra, ha potuto far finta di niente.
La BBC, da parte sua, ha inviato una doppia comunicazione: una lettera formale degli avvocati alla squadra legale del presidente e una lettera personale di Samir Shah indirizzata alla Casa Bianca. Le scuse ci sono. Quello che manca è ogni riconoscimento di responsabilità legale o economica. La posizione è chiara: non c’è risarcimento senza prova di falsità deliberata o di consapevolezza dell’errore. L’emittente insiste che l’episodio è stato un passo falso giornalistico, non un atto di propaganda.
Di tutt’altro avviso è Alejandro Brito, avvocato di Trump, che ha quantificato in almeno un miliardo di dollari il danno “reputazionale ed economico” causato dal montaggio. Nella lettera di messa in mora, inviata secondo la normativa della Florida, chiede scuse pubbliche, una rettifica integrale del documentario e una compensazione economica. Stabilisce anche scadenze precise, lasciando intendere che, in assenza di una risposta soddisfacente, il passo successivo sarà un atto di citazione.
Il percorso legale, però, è tutt’altro che semplice. Negli Stati Uniti, per vincere una causa di diffamazione contro un personaggio pubblico, occorre dimostrare l’actual malice, cioè che il media abbia pubblicato una falsità sapendo che fosse tale o ignorando deliberatamente la verità. La BBC ha già ammesso un errore “involontario”, e ottenere la prova del contrario appare particolarmente difficile. C’è poi la questione della giurisdizione: il documentario è un prodotto britannico e, secondo alcune analisi, non sarebbe stato trasmesso negli Stati Uniti. Questo rende più complicato dimostrare un danno diretto davanti a un tribunale americano. Al contrario, nel Regno Unito i termini di legge per avviare una causa relativa a un programma del 2024 potrebbero essere già scaduti. Tutto questo senza contare che Trump è stato eletto presidente nel 2024: un elemento che indebolisce, secondo molti esperti, qualsiasi tesi di “danno duraturo alla reputazione”.
La vicenda ha ormai superato la dimensione tecnica del montaggio ed è diventata un caso politico-mediatico che investe la fiducia nel servizio pubblico. Nel Regno Unito, governo e opposizioni hanno chiesto trasparenza, mentre l’esecutivo laburista ha ribadito il valore di una BBC indipendente, purché rapida nel correggere gli errori. Dall’altra parte dello spettro politico, forze come Reform UK hanno ritirato la collaborazione a un nuovo documentario, citando un clima di sfiducia. Un segnale evidente: quando vacilla la credibilità del broadcaster nazionale, si inceppa perfino l’ordinaria amministrazione dei rapporti con i partiti.
Per comprendere la sostanza del caso, bisogna tornare a quel discorso del 6 gennaio 2021. La BBC ammette di aver accostato frasi che nella realtà erano distanti nel tempo, eliminando passaggi chiave legati alla protesta pacifica. La compressione temporale, pratica giornalistica legittima quando dichiarata, può diventare una manipolazione quando altera il significato complessivo degli eventi. Il cuore dell’errore è qui, ed è qui che si apre la riflessione più ampia sul confine – delicatissimo – tra sintesi e distorsione.
Il rapporto del whistleblower Michael Prescott, rivelato dal Telegraph, sostiene peraltro che l’episodio di Panorama non fosse isolato. Si parla di altri casi di editing discutibile, di frame narrativi squilibrati, di controlli insufficienti. La BBC non ha commentato nel merito, ma ha “preso sul serio” le accuse e annunciato verifiche interne. Per un’istituzione che si considera – e viene considerata – uno dei gold standard del giornalismo mondiale, è una crisi identitaria prima ancora che operativa.
In tutto questo, il ruolo delle scuse assume una dimensione ambigua. Sono arrivate, ma sono arrivate tardi: dopo le rivelazioni del Telegraph, dopo la lettera dell’avvocato Brito, dopo le dimissioni di due vertici chiave. Il rischio è che appaiano come una risposta forzata più che come un gesto spontaneo di responsabilità. D’altra parte, la scelta di non pagare danni rivendica un principio: riconoscere un errore professionale non significa ammettere una falsità consapevole. È una linea sottile, destinata a essere testata se davvero si arriverà in tribunale.
Gli osservatori che sperano in un accordo rapido dovranno armarsi di pazienza. In casi che coinvolgono media pubblici, ogni sterlina spesa diventa immediatamente caso politico, e la BBC sa bene che qualsiasi transazione verrebbe interpretata come una resa. D’altro canto, la Casa Bianca vuole poter rivendicare una vittoria simbolica, almeno sul piano comunicativo. È anche per questo che lo scenario resta aperto: rettifica rafforzata senza causa, contenzioso pieno, accordo extragiudiziale con formule creative. Tutto è possibile, nulla è probabile.
Quel che è certo è che il caso Panorama finirà nei manuali interni della BBC come una lezione severa sulla fragilità del confine tra narrazione giornalistica e alterazione del contesto. E nell’eterno braccio di ferro tra media e politica, quell’ora di discorso compressa e ricomposta continuerà a pesare per molto tempo. Una storia che non riguarda “solo” un documentario: riguarda la fiducia, il potere delle immagini, e la responsabilità di chi racconta il mondo a milioni di persone.
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