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14 Novembre 2025 - 05:33
Mercoledì 12 novembre, nella suggestiva cornice della Sala Conferenze Trinità di Cuorgnè, il professor Carlo Dellarole ha accompagnato il pubblico dell’Unitre in un viaggio che non è semplicemente un ricordo del 2019, ma una vera immersione in un’esperienza quasi mistica. Un viaggio nato non per vacanza né per evasione, ma per un richiamo più profondo: assistere a un fenomeno che l’umanità, fin dall’alba dei tempi, ha osservato con timore e meraviglia. L’eclissi totale di Sole del 2 luglio 2019, visibile soltanto lungo una strettissima fascia che attraversava il Cile e parte dell’Argentina, è stata il filo rosso che ha guidato l’intera avventura.
Non un turismo improvvisato, dunque, ma un progetto: raggiungere il punto esatto del pianeta in cui il giorno si sarebbe spento per qualche minuto, come se la Terra stessa trattenesse il fiato. Tuttavia, come spesso accade quando ci si mette in cammino con occhi aperti e mente curiosa, quello che doveva essere un semplice appuntamento con il cielo è diventato molto di più. Il Cile, con la sua geografia estrema, i suoi deserti che sembrano appartenere a un altro mondo e la sua storia fatta di cicatrici e di rinascite, ha trasformato l’itinerario in un’autentica esplorazione del pianeta, della memoria e dell’uomo.
La partenza è da La Serena e Coquimbo, città costiere che conservano un’eleganza antica. Qui, tra le architetture coloniali illuminate da una luce che al tramonto pare fusa nell’oro, si consuma l’attesa. L’atmosfera, alle porte dell’eclissi, è sospesa: un crepuscolo che non è solo naturale, ma emotivo. Il 2 luglio, quando la Luna inizia ad avanzare davanti al disco solare, il mondo sembra rallentare. Gli animali tacciono, il vento si placa, persino il mare pare esitare. In pochi minuti tutto cambia: la luce diventa metallica, il cielo vira verso un blu profondo e innaturale, l’ombra corre sulla terra come un’onda rovesciata. È un momento perfetto e fragile, in cui l’uomo si scopre minuscolo e, allo stesso tempo, privilegiato spettatore dell’orologio cosmico.
Ma il viaggio non si arresta con la fine di quel prodigio. Il gruppo prosegue verso nord, in direzione del deserto di Atacama, un luogo così arido da essere considerato un laboratorio naturale per lo studio di Marte. Qui non piove quasi mai, e il cielo è così terso da permettere osservazioni astronomiche tra le migliori del pianeta. Le distese bianche del Salar de Atacama sembrano galleggiare tra luce e silenzio: sono superfici che accecano, specchi che riflettono il cielo, altipiani che sembrano sospesi tra la vita e l’assenza di essa. E attorno, come sentinelle immobili, si ergono vulcani perfetti, vere cattedrali di roccia scolpite dal fuoco e dal tempo.
A 4.000 metri di altitudine, il paesaggio cambia ancora. Nonostante il freddo, la rarefazione dell’aria e l’asprezza del terreno, la vita resiste. I fenicotteri rosa brillano come pennellate d’artista nelle lagune salate. Le vigogne, snelle e leggere, attraversano gli altipiani con un’eleganza quasi irreale. E poi ci sono i geyser del Tatio, che all’alba si sollevano in colonne di vapore e acqua bollente, trasformando il deserto in una scena primordiale, un teatro di forze invisibili che ricordano all’uomo quanto fragile sia la sua presenza sulla terra.
Dal continente, un volo porta su un altro pianeta, almeno in apparenza: l’Isola di Pasqua, un punto remoto dell’oceano Pacifico, una terra nata dal fuoco e scolpita dal vento. I moai, enigmatici e solenni, vegliano da secoli sul destino umano. Non guardano il mare, come molti credono: osservano l’interno dell’isola, i villaggi, le persone che un tempo popolavano quelle terre. Sono simboli di protezione, di memoria, di una società complessa che ha saputo modellare la pietra per custodire i propri antenati. Alcuni moai giacciono ancora dove furono scolpiti, mai completati, come se il tempo avesse interrotto il lavoro degli artigiani all’improvviso. Altri sono crollati, decapitati, parzialmente sepolti: ferite che raccontano conflitti, rivoluzioni, abbandono. In quell’isolamento assoluto, stretto tra oceano e silenzio, l’uomo comprende ancora una volta quanto sia breve la sua esistenza e quanto profonde le tracce che tenta di lasciare.
Il Cile stesso, lungo e sottile come una lama che taglia il continente da nord a sud, possiede una storia che assomiglia ai suoi paesaggi: è fatta di contrasti, di forza e fragilità, di terremoti e ricostruzioni. È un Paese che ha vissuto la dominazione coloniale, la nascita della Repubblica, la violenza della dittatura e il lento cammino verso la democrazia. Le sue ferite non sono del tutto rimarginate, e convivono con l’energia di un popolo giovane, che guarda avanti pur sapendo di portare sulle spalle un passato pesante.
Alla fine, ogni viaggio assomiglia a un’eclissi: ci obbliga a uscire dalla nostra luce quotidiana per cercarne una diversa, più profonda, forse più autentica. Guardare il Sole oscurarsi nel cielo del Cile è stato, per molti dei presenti alla conferenza, qualcosa di più di un fenomeno astronomico: un attimo in cui il tempo si sospende e l’uomo, come la natura, sembra rinnovarsi.
Davanti ai vulcani senza età, ai deserti sterminati e ai moai che resistono all’oblio, si comprende che la Terra non è una scenografia sullo sfondo della nostra vita: è un organismo vivo, imponente, antico. Non ci appartiene. Siamo noi a essere suoi ospiti, suoi figli, sue comparse nella vastità del tempo geologico.
E quando, alla fine dell’eclissi, il Sole rispunta da dietro la Luna, la luce che torna non è la stessa di prima. È più nitida, più consapevole, come lo sguardo di chi ha trovato il coraggio di attraversare l’ombra per apprezzare davvero il valore del giorno.



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