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Ombre su Torino

Duplice suicidio riuscito a metà: l’amore proibito di Antonio e Maria Donata finito nel cianuro

Nel 1971 alla Crometal di Torino un caporeparto di 27 anni e una ragazza di 15 vivono una relazione segreta che si trasforma in tragedia. Lui sopravvive, lei muore. I giudici parleranno di “omicidio del consenziente”, ma la città resta sconvolta da un amore impossibile e da un gesto estremo che segna per sempre Barriera di Lanzo

Duplice suicidio riuscito a metà: l’amore proibito di Antonio e Maria Donata finito nel cianuro

Duplice suicidio riuscito a metà: l’amore proibito di Antonio e Maria Donata finito nel cianuro

Antonio ha 27 anni ed è caporeparto alla Crometal, un’azienda di cromatura di metalli che si trova in via Durando 9, Barriera di Lanzo, Torino nord.

È un lavoratore scrupoloso, attento e serio il cui unico scopo nella vita sembra quello di mettere da parte i soldi per comprare una casa per lui e la sua famiglia. Un uomo che passa le serate a guardare la televisione con la moglie e i figli, senza vizi, senza segreti, senza lati oscuri.

Fino al 30 novembre 1971.

Quel giorno, intorno alle 15, i suoi colleghi lo vedono risalire dalla scala che porta al magazzino sotterraneo e si accorgono che c’è qualcosa che non va. Antonio arranca, striscia i piedi, ha continui conati di vomito, lo sguardo vitreo. Non riesce a parlare e sviene tra le braccia dei compagni che lo hanno soccorso e che, prima che salga in ambulanza, notano che ha degli strani segni di bruciature intorno alle labbra.

Pensando a un incidente causato da una delle sostanze utilizzate in ditta, un paio di loro scendono nello scantinato. Quello che si trovano davanti è inimmaginabile: stesa a terra c’è una ragazza di 15 anni, Maria Donata, anch’ella dipendente della Crometal, con addosso solo una maglietta tirata su fino alle ascelle. È morta e il suo viso è sfigurato. Qualcosa le ha provocato delle orrende causticazioni vicino alla bocca che si sono ramificate fino al naso, i cui tessuti sono stati corrosi arrivando all’osso.

Ricoverato in ospedale, Antonio viene dichiarato fuori pericolo in un paio d’ore e ricostruisce il romanzo dell’ultimo periodo della sua esistenza. Antonio e Maria Donata erano amanti. La loro storia comincia otto mesi prima quando la fanciulla viene assunta in ditta: è un colpo di fulmine. Un legame nato ritagliando tempo nelle pause pranzo e giustificandosi coi parenti dietro inesistenti ore di straordinario, fatta di furtive passeggiate, baci e carezze.

Tenero, platonico e condizionato dalla paura di essere scoperti e dai tanti sensi di colpa dell’uomo nei confronti della moglie e della ragazza, con la quale non arriverà mai ad avere un rapporto sessuale. L’autopsia sul corpo della quindicenne svela la sua verginità e la totale assenza di segni di violenza, ma, soprattutto, la causa del decesso: avvelenamento da cianuro.

Un omicidio quindi? Non secondo Antonio.

L’operaio racconta che era da qualche settimana che i due si erano resi conto di vivere una relazione senza futuro. Lui non avrebbe mai divorziato, i genitori di lei non avrebbero mai accettato quella tresca. La soluzione, per non lasciarsi, nella versione dell’uomo, è una sola: uccidersi insieme.

Narra che quel giorno lui e Maria Donata sono scesi nel sotterraneo portandosi una pastiglia di cianuro di quelle utilizzate per la cromatura dei metalli, si sono abbracciati e poi l’adolescente si è spogliata chiedendogli di fare l’amore per la prima e ultima volta.

Antonio si rifiuta e si mette tra i denti la tavoletta avvelenata, per unirsi in un ultimo bacio mortale. Riferisce che Maria Donata morde il suo lato della capsula per prima e, fulminata all’istante, cade all’indietro, strappandogli dalla bocca la sua parte, di fatto salvandolo.

“Ho sentito un gusto amaro e mi si è rivoltato lo stomaco, poi ho perso i sensi. È andata così, chiedetelo a lei se non ci credete” dice. Non sa neanche che, al momento del suo racconto, l’altra protagonista di questa storia è morta.

Antonio, ritenuto dalla personalità debole e succube, viene rinviato a giudizio, nel 1973, per omicidio del consenziente. Per la parta civile “Lei era suggestionata dall’amante, gli ha creduto ed è morta convinta che lui l’avrebbe seguita nel tragico gesto, che lui l’amasse, come lei l’amava” definendo l’imputato parzialmente incapace di intendere poiché “il suicida o il mancato suicida sono persone malate e lui lo è in questo senso, non nella intelligenza ma nella volontà”.

I giudici, pur ritenendo possibile che davvero Maria Donata avrebbe voluto morire insieme all’amante, stabiliscono che stava all’adulto mettere la testa per entrambi e dissuaderla dal terribile proposito. Per questo, il ventisettenne viene condannato a otto anni per aver istigato la ragazza a togliersi la vita. Come riportato dai giornali dell’epoca, alla fine, viene accolta la tesi della difesa: è stato un duplice suicidio.

Riuscito a metà.

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