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Il tifone Kalmaegi devasta l’Asia: 190 morti, città sommerse, case spazzate via

Un mese di pioggia in un solo giorno. Cebu e l’altopiano del Vietnam trasformati in fango e macerie. Il tifone Kalmaegi, ribattezzato Tino, diventa l’incubo del Pacifico e l’ennesimo segnale di un clima ormai fuori controllo

Il tifone Kalmaegi devasta l’Asia: 190 morti, città sommerse, case spazzate via

Il tifone Kalmaegi devasta l’Asia: 190 morti, città sommerse, case spazzate via

Dalla furia d’acqua che ha inghiottito i quartieri di Cebu (Filippine) alla corsa contro il tempo in Gia Lai e Đắk Lắk (Vietnam): numeri, testimonianze e lezioni di resilienza di fronte a un ciclone diventato simbolo della nuova normalità climatica.

Il rumore dell’acqua era più forte del vento. Quando la pioggia ha cominciato a scendere a raffiche su Talisay (Filippine), nell’area metropolitana di Cebu, i SUV si sono trasformati in zattere, i salotti in acquari, le scale interne in un improvvisato argine. In appena 24 ore è caduto l’equivalente di un mese di pioggia: il fiume ha rotto gli argini in pochi minuti e decine di famiglie si sono rifugiate sui tetti, chiamando numeri d’emergenza che non rispondevano più. Scene da fine del mondo in un Sud-est asiatico abituato ai cicloni, ma non a una furia come quella di Kalmaegi, o Tino, come lo chiamano nelle Filippine: un tifone che ha spazzato via città, ponti e sogni di sviluppo, lasciando dietro di sé un paesaggio che sembra uscito da un film post-apocalittico.

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Le ultime stime parlano di almeno 188 vittime, 135 dispersi e 96 feriti nelle Filippine, con la provincia di Cebu come epicentro della tragedia. In Vietnam, dove Kalmaegi è approdato dopo aver attraversato il Mar Cinese Meridionale, si contano almeno cinque morti e migliaia di feriti, con danni per quasi 300 milioni di dollari. Il bilancio nelle Filippine, invece, è già stimato in oltre 500 milioni di dollari, ma è destinato a crescere man mano che le squadre di soccorso raggiungono i barangay isolati. Tra le vittime figurano anche sei militari filippini, morti nello schianto di un elicottero dell’aeronautica impegnato nei soccorsi: un episodio che racconta meglio di ogni cifra la difficoltà dell’intervento.

Kalmaegi si è formato a fine ottobre sull’oceano Pacifico occidentale, alimentato da acque eccezionalmente calde, e il 1° novembre 2025 ha ottenuto la denominazione ufficiale dalla Japan Meteorological Agency. Entrato nella Philippine Area of Responsibility nei primi giorni del mese, ha colpito con venti fino a 215 chilometri orari, scaricando in 24 ore oltre 180 millimetri di pioggia, più di quanto normalmente cade in un mese. Poi ha ripreso forza sul Mar Cinese Meridionale, puntando verso il Vietnam centrale con raffiche da uragano, fino a 149 chilometri orari, sradicando alberi, travolgendo linee elettriche e rendendo inagibili strade e ferrovie.

A Cebu, nella notte del 4 novembre, la popolazione ha vissuto ore di terrore. In poche ore oltre 350.000 persone hanno dovuto abbandonare le proprie case, trascinando bambini, anziani e animali attraverso corsi d’acqua improvvisati. Case in muratura spazzate via, muri crollati, interi isolati senza luce né acqua. La città era già fragile dopo il terremoto di settembre (magnitudo 6.9), e le crepe strutturali si sono trasformate in voragini. Il presidente Ferdinand Marcos Jr. ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale, mentre la provincia ha proclamato il disastro naturale. In molti puntano il dito contro la cattiva gestione del territorio: escavazioni illegali, argini mai completati e cantieri mal progettati che avrebbero amplificato la portata dell’alluvione.

Le immagini satellitari mostrano un arcipelago trasformato in un mosaico di lagune marroni. Le squadre della Protezione civile e della Croce Rossa, affiancate da volontari e militari, hanno lavorato giorno e notte per liberare le strade da alberi, auto e container trascinati via dall’acqua. In alcuni quartieri l’acqua potabile arriva solo via elicottero. I soccorritori raccontano di bambini salvati con corde improvvisate, di famiglie trovate sui tetti dopo due giorni senza cibo, di villaggi interi dove il silenzio si alterna al rumore dei generatori.

Quando Kalmaegi ha toccato terra nel Vietnam centrale il 6 novembre, la macchina dell’emergenza era già pronta: 268.000 militari, 6 aerei, 6.700 mezzi di soccorso mobilitati. Le autorità hanno evacuato centinaia di migliaia di residenti nelle province di Gia Lai, Đắk Lắk e Quang Ngai, prevenendo un disastro di proporzioni maggiori. Le onde alte fino a 10 metri hanno colpito con violenza la costa, danneggiando porti, serre e impianti agricoli. Nelle ore successive, oltre 1,3 milioni di persone sono rimaste senza elettricità. Le raffiche hanno devastato ponti e tralicci, mentre le mareggiate hanno costretto alla chiusura di diversi porti e linee ferroviarie.

Le piogge torrenziali a Cebu hanno scaricato una “pioggia di un mese in un giorno”, generando flash flood devastanti in quartieri densamente urbanizzati. La tempesta ha mantenuto la potenza di un tifone per tutta la traversata delle Visayas (Filippine centrali), per poi riacquistare energia in mare aperto. I bollettini di PAGASA hanno registrato venti sostenuti fino a 150 km/h e raffiche oltre 205 km/h, numeri che collocano Kalmaegi fra i cicloni più violenti della stagione.

Gli scienziati concordano su un punto: in un’atmosfera più calda, ogni grado in più significa più vapore acqueo, quindi più pioggia concentrata in meno tempo. Le precipitazioni associate ai cicloni tropicali aumentano costantemente, mentre cresce la proporzione di eventi estremi di categoria 4 e 5. Nel frattempo, l’innalzamento del livello del mare aggrava le inondazioni costiere. Il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato e gli oceani hanno immagazzinato una quantità record di calore: un mix esplosivo che nel 2024 e nel 2025 ha continuato a moltiplicare l’intensità delle tempeste nel Pacifico.

L’efficacia del modello vietnamita, con piani di evacuazione dettagliati per distretto e una catena di comando disciplinata, ha salvato centinaia di vite. È la dimostrazione che la preparazione conta. Ma anche la resilienza dei filippini resta un esempio: tra fango e distruzione, comunità intere hanno ricominciato a spalare, ad asciugare, a cucinare insieme nelle palestre trasformate in centri di accoglienza. Un funzionario locale ha sintetizzato così lo spirito della ricostruzione: “Non possiamo fermare il vento, ma possiamo costruire case che non volano via.”

A Cebu, i rappresentanti delle organizzazioni umanitarie parlano di devastazione “mai vista”, e di una priorità assoluta: trovare i dispersi e garantire ripari temporanei. I sopravvissuti raccontano di un’acqua salita “in un lampo”, di automobili trascinate via “come giocattoli”, di muri di cinta crollati “come di carta”. In Gia Lai e Đắk Lắk, invece, la parola più ripetuta è prontezza: scuole chiuse in tempo, barche messe in sicurezza, interi villaggi evacuati ore prima dell’impatto.

Kalmaegi, dunque, non è solo l’ennesimo tifone del Pacifico: è il promemoria di un pianeta che cambia più in fretta della nostra capacità di adattarci. Ricostruire non basta: occorre ripensare. Sollevare le case, ridisegnare le città come spugne, creare reti elettriche resilienti e argini naturali. Cercare responsabilità dove ci sono, per evitare che la prossima piena trovi le stesse falle. Intanto, nelle Filippine, i soccorritori continuano a contare vittime e dispersi nei barangay isolati, mentre in Vietnam si rialzano i tralicci e si riaccendono le luci. La stagione dei tifoni non è finita. Ma non lo è nemmeno la capacità delle comunità asiatiche di imparare, adattarsi e resistere — perché, come sempre, dopo ogni onda, qualcuno torna a ricostruire.

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