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Esteri
08 Novembre 2025 - 09:52
Netanyahu
Una sala d’udienza come tante, in un edificio grigio di Istanbul, un venerdì di inizio novembre. Ma questa volta non si tratta di un’udienza qualsiasi. Sul tavolo del giudice c’è un fascicolo spesso, gonfio di fotografie, date, coordinate marittime, schede di funzionari. È un documento che, nel silenzio di una stanza di tribunale, accende una miccia geopolitica destinata a far rumore in mezzo mondo. La magistratura turca chiede e ottiene 37 mandati di arresto per “genocidio” e “crimini contro l’umanità”. Tra i nomi spiccano Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele, Israel Katz, ministro della Difesa, Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, il capo di Stato maggiore Eyal Zamir e l’ammiraglio David Saar Salama. È la prima volta che un tribunale turco si spinge così oltre contro i vertici politici e militari israeliani. Una decisione che scuote il quadro internazionale e che si innesta su un contesto già teso: da un lato il conflitto israelo-palestinese e le sue ferite aperte, dall’altro lo scontro istituzionale che sta travolgendo la Corte Penale Internazionale.

Secondo la comunicazione ufficiale dell’Ufficio del procuratore capo di Istanbul, i mandati di arresto sono stati firmati il 7 novembre 2025 dal Giudice di Pace penale di turno. Si procede per i reati di “genocidio” (articolo 76 del Codice penale turco) e “crimini contro l’umanità” (articolo 77). Nel provvedimento si sottolinea l’“impossibilità di procedere a fermo”, poiché gli indagati non si trovano sul territorio turco. I magistrati elencano un quadro di attacchi “sistematici” contro civili nella Striscia di Gaza a partire dall’ottobre 2023, nonché condotte connesse al sequestro e all’intercettazione in mare della Global Sumud Flotilla nell’ottobre 2025. L’elenco dei 37 include figure di primo piano del governo e delle forze armate israeliane, e non manca di riflessi simbolici: è la proiezione internazionale di una sfida politica e giuridica che Ankara intende condurre fino in fondo.
La mossa turca poggia sulla dottrina della cosiddetta “giurisdizione universale”, un principio di diritto internazionale che consente a uno Stato di perseguire alcuni crimini gravissimi – come il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità – indipendentemente dal luogo in cui siano stati commessi e dalla nazionalità degli autori o delle vittime. Una prerogativa eccezionale, che Ankara ha scelto di esercitare per due motivi: ribadire la propria interpretazione del diritto internazionale in materia di protezione dei civili e riaffermare, sul piano politico, il ruolo della Turchia come potenza regionale capace di farsi portavoce del mondo musulmano nei confronti di Israele.
Non è un caso che l’organizzazione per i diritti umani DAWN, con sede a Washington, abbia definito l’iniziativa “un passo necessario per ristabilire l’universalità della legge internazionale”, invitando altri Paesi a seguire l’esempio turco. Una posizione che ha trovato eco in ampi settori della società civile araba e musulmana, ma che ha suscitato la prevedibile reazione di Israele.
Da Gerusalemme, la risposta è arrivata nel giro di poche ore. Il ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha bollato la decisione come una “messa in scena di pubbliche relazioni orchestrata dal tiranno Recep Tayyip Erdoğan”, accusando Ankara di “strumentalizzare la giustizia per finalità politiche”. La posizione del governo israeliano è netta: nessun riconoscimento della legittimità dell’azione giudiziaria turca e nessuna cooperazione con un tribunale che Israele considera privo di competenza e imparzialità.
Il contenzioso si inserisce in un solco già tracciato dallo scontro con la Corte Penale Internazionale, che nel novembre 2024 aveva emesso mandati nei confronti di Netanyahu e dell’allora ministro della Difesa Yoav Gallant per presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Anche in quel caso, la reazione israeliana era stata durissima, sostenuta dal governo statunitense, che nel luglio 2025 aveva ammonito gli Stati membri della Corte a “lasciare cadere i procedimenti” contro Israele.
Per comprendere la portata della decisione turca bisogna guardare al mare, al caso della Global Sumud Flotilla, citato esplicitamente nel fascicolo di Istanbul. Tra il 1° e il 3 ottobre 2025, la marina israeliana ha intercettato decine di imbarcazioni dirette verso Gaza, parte di una missione di attivisti che intendeva rompere simbolicamente il blocco marittimo imposto dal 2007. Si trattava della più grande iniziativa del genere dall’inizio del conflitto: oltre 40 barche, circa 500 persone a bordo, fra cui personalità pubbliche, giornalisti e parlamentari provenienti da vari Paesi europei. Le ultime unità, tra cui la “Marinette”, sono state fermate a 42,5 miglia nautiche dalla costa di Gaza. Gli attivisti sono stati trasferiti in Israele e poi espulsi. Diversi governi europei hanno chiesto il rispetto dei diritti dei detenuti, mentre Ankara ha denunciato un “sequestro illegale in acque internazionali”, attivando canali diplomatici e consolari per i propri cittadini coinvolti.
Per Gerusalemme, quelle imbarcazioni tentavano di “forzare un blocco navale legittimo” e la distribuzione degli aiuti umanitari doveva avvenire “attraverso vie ufficiali”. Ma per la magistratura turca, l’episodio rappresenta un tassello di un disegno più ampio: quello di un’offensiva sistematica contro civili e attivisti, parte di un comportamento che rientra nella fattispecie di genocidio. Dimostrarlo in un’aula di tribunale, tuttavia, sarà un’altra storia.
Il diritto penale internazionale prevede che l’effettiva esecuzione di simili mandati dipenda dalla collaborazione di altri Stati. In assenza degli indagati sul territorio turco, i provvedimenti restano di fatto dichiarativi, ma non per questo irrilevanti. La Turchia potrebbe tentare la via dell’Interpol o chiedere la cooperazione di Paesi terzi, anche se è difficile immaginare un consenso internazionale su una misura così esplosiva. Eppure, nel linguaggio della diplomazia, anche un atto simbolico ha peso: i mandati di Istanbul rafforzano la posizione politica di Erdoğan e rilanciano la narrativa di un Paese che si erge a difensore dei palestinesi mentre molti altri restano in silenzio.
Nel frattempo, all’Aia, la Corte Penale Internazionale attraversa la crisi più grave della sua storia recente. Il suo procuratore capo, Karim Ahmad Khan, è stato sospeso a maggio 2025 dopo essere stato accusato di misconduct sessuale da un’ex collaboratrice. Khan respinge ogni addebito, ma l’indagine dell’Ufficio dei Servizi di Supervisione Interna delle Nazioni Unite (OIOS) è ancora in corso. Durante la sua assenza, le funzioni sono state affidate ai vice procuratori, che hanno assicurato la continuità delle indagini in corso, incluse quelle su Ucraina e Israele-Hamas.
Il 6 novembre 2025, un’inchiesta del Guardian ha aggiunto un tassello ancora più inquietante. Secondo documenti trapelati, il Qatar avrebbe ingaggiato la società londinese Highgate, con il supporto di Elicius Intelligence, per raccogliere informazioni sensibili sulla principale accusatrice di Khan. L’obiettivo sarebbe stato quello di minare la sua credibilità pubblica e mettere in dubbio la legittimità delle accuse. I file descrivono richieste di dati su passaporti, spostamenti e persino sul figlio della donna. Nessuna prova, invece, dei presunti legami con Israele che si cercava di dimostrare.
La società Highgate nega ogni responsabilità, affermando di non aver mai preso di mira individui né di aver agito per conto del governo qatariota. Doha, ufficialmente, non commenta. Ma il sospetto che un’operazione d’intelligence privata possa aver cercato di interferire con un’inchiesta interna della CPI getta un’ombra pesante sulla sicurezza delle fonti e sulla credibilità dell’intera istituzione.
A complicare ulteriormente la situazione, nell’agosto 2025 è emersa una seconda testimonianza di presunta cattiva condotta sessuale contro Khan, anch’essa smentita dalla sua difesa. Tuttavia, il danno d’immagine è ormai profondo: la procura dell’Aia, che negli ultimi anni aveva tentato di riaffermare la propria indipendenza nei confronti delle grandi potenze, appare ora vulnerabile e attraversata da conflitti interni, fughe di notizie e sospetti di interferenze esterne.
Mentre a Istanbul si emettono mandati e all’Aia si indaga, a Gerusalemme si consolidano nuovi equilibri. Nel marzo 2025 Eyal Zamir è stato nominato nuovo capo di Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane, ricevendo i gradi alla presenza di Benjamin Netanyahu e Israel Katz, nel frattempo passato alla Difesa. Il rimpasto ai vertici militari e politici, dopo il trauma del 7 ottobre, ha ridisegnato la catena di comando israeliana. Le pressioni delle famiglie degli ostaggi, la persistente minaccia di Hamas e le tensioni con il Libano restano fattori centrali di un quadro in costante ebollizione.
In questo scenario, la mossa turca assume un significato che va oltre il diritto. È un atto di politica estera travestito da giustizia, ma anche una denuncia simbolica di impotenza della comunità internazionale. I mandati di arresto probabilmente non saranno mai eseguiti, ma la loro esistenza segna una frattura nel sistema delle relazioni globali: per la prima volta, un tribunale nazionale di un Paese a maggioranza musulmana accusa formalmente un intero governo occidentale di genocidio.
Per chi osserva dall’Italia, tutto questo racconta almeno tre verità. La prima è che la giustizia penale internazionale sta vivendo una stagione di iper-politicizzazione: ogni indagine sui conflitti contemporanei è accompagnata da campagne mediatiche, fughe di notizie e pressioni incrociate. La seconda è che gli strumenti nazionali, come i mandati turchi, possono colmare i vuoti lasciati dalle corti internazionali, ma rischiano di generare sovrapposizioni conflittuali e tensioni diplomatiche. La terza è che la trasparenza interna alle istituzioni resta il fondamento della loro credibilità: se la CPI non saprà gestire con rigore e rapidità le accuse che la riguardano, il suo potere deterrente ne uscirà gravemente indebolito.
E così, in un tribunale di Istanbul, un fascicolo con 37 nomi rimane aperto. È più di un atto giudiziario: è il simbolo di un mondo che processa se stesso, in cui il diritto e la geopolitica si sovrappongono, e in cui ogni documento, ogni mandato, ogni inchiesta diventa al tempo stesso una pagina di giustizia e un gesto di diplomazia.
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