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Oléron, 35 minuti di terrore: il folle grido “Allah Akbar” e un’isola sotto shock

Cinque feriti, due in condizioni critiche. Un grido, “Allah Akbar”, e un’isola attonita: il ritratto di un uomo ai margini tra dipendenze, isolamento e possibili derive religiose, mentre gli inquirenti scandagliano ogni pista

Oléron, 35 minuti di terrore: il folle grido “Allah Akbar” e un’isola sotto shock

Oléron, 35 minuti di terrore: il folle grido “Allah Akbar” e un’isola sotto shock

Una piccola Honda Civic che sfreccia all’alba tra i villaggi dell’Île d’Oléron, 35 minuti di andatura erratica, frenate improvvise e ripartenze, pedoni e ciclisti buttati a terra. Cinque feriti, due in condizioni critiche. È mercoledì 5 novembre 2025 sulla costa atlantica francese, e la quotidianità di un’isola di pescatori si trasforma in una sequenza di paura. Quando le forze dell’ordine riescono a fermare il conducente, lui urla “Allah Akbar”. Un grido che si propaga come una scossa, rimbalza sui media e scuote la Francia, ma che da solo non spiega nulla. Gli inquirenti scelgono la prudenza: l’ipotesi terroristica rimane sullo sfondo, la pista psichiatrica prende corpo, e nel frattempo emergono brandelli di una vita fragile e tormentata. L’uomo al volante è Jean G., 35 anni, residente a Saint-Pierre-d’Oléron. Non è schedato per radicalizzazione, ma i gendarmi lo conoscono per piccoli precedenti legati all’alcol e alla droga. Sull’isola, in particolare a La Cotinière, lo descrivono come una presenza inquieta, uno di quei volti che si vedono e poi spariscono, sempre al margine del porto, tra lavori saltuari e scoppi di rabbia. Viveva in una casa mobile, spesso da solo, in una routine fatta di solitudine e sbandate. Un uomo che molti definiscono “instabile”, ma mai violento, almeno fino a quel mercoledì.

La ricostruzione ufficiale racconta una corsa di 35 minuti, tra Dolus-d’Oléron e Saint-Pierre, cominciata intorno alle 8:40. L’auto colpisce più persone in punti diversi della stessa direttrice, lasciando sull’asfalto biciclette distrutte e scarpe abbandonate. Due feriti vengono trasportati in elicottero a La Rochelle in terapia intensiva. Quando i gendarmi lo intercettano, Jean G. tenta di dare fuoco alla vettura, in cui vengono trovate bombole di gas: un dettaglio che moltiplica i sospetti, ma che potrebbe appartenere a un gesto impulsivo più che a un piano. Per fermarlo serve il taser. Tra i feriti c’è anche un assistente parlamentare di un deputato del Rassemblement National, elemento che aggiunge subito una dimensione politica alla vicenda. Nelle prime ore, i numeri ballano: dieci feriti, quattro gravi, poi la correzione del Ministero dell’Interno, che fissa il bilancio a cinque, due dei quali in condizioni critiche. È la consueta confusione delle prime fasi, in cui i referti medici e i comunicati si rincorrono, ma nel frattempo la narrazione pubblica si cristallizza: il grido, l’auto, le bombole, la paura.

Il procuratore di La Rochelle apre un’inchiesta per tentato omicidio, mentre la Procura nazionale antiterrorismo osserva da lontano, pronta a intervenire se emergessero prove di motivazioni ideologiche. Il ministro dell’Interno Laurent Nuñez parla di possibili segnali di “auto-radicalizzazione”, citando riferimenti religiosi rinvenuti nell’abitazione del sospetto, ma anche in questo caso le autorità ribadiscono che servono riscontri concreti. La perizia psichiatrica è già stata disposta, i telefoni e i dispositivi informatici sono sotto analisi per verificare eventuali contatti, ricerche, messaggi, tracce di propaganda. Gli investigatori lavorano su più piste: un crollo mentale, una conversione improvvisa, forse entrambe le cose fuse in un’unica esplosione. L’auto-radicalizzazione resta un’ipotesi, ma la semplice esposizione a contenuti estremisti non basta a configurare un intento terroristico.

Oléron, nel frattempo, cerca di ritrovare il respiro. Non è un luogo anonimo, ma un arcipelago di comunità dove tutti si conoscono, dove pescatori, ostricoltori e stagionali si salutano ogni mattina al mercato del porto. La sindaca parla di “scossa profonda”, e tra le vie di La Cotinière c’è incredulità. “Era uno che stava sempre da solo, ma non pensavamo fosse capace di questo”, dice un vicino. Gli psicologi e i servizi sociali si attivano per seguire i feriti e le famiglie, mentre la macchina delle indagini lavora per capire se negli ultimi mesi Jean G. avesse manifestato cambiamenti repentini: un’ossessione religiosa, un peggioramento delle dipendenze, un isolamento più marcato.

A Parigi, la politica reagisce secondo copione. Da destra arrivano accuse di lassismo e richieste di definire subito l’episodio come atto terroristico; altri invocano cautela, ricordando che senza prove un’ipotesi resta tale. È la dialettica ormai familiare nella Francia scossa da anni da episodi che oscillano tra fede distorta e follia individuale. La società si interroga ancora una volta su dove finisca la fragilità e dove cominci l’ideologia. Gli studiosi parlano di “ibridazione delle motivazioni”, di come l’immaginario jihadista possa diventare una maschera per rabbie personali e disturbi mentali. Per la giustizia la soglia resta giuridica: dimostrare un intento ideologico, non solo un delirio. Per la società, invece, la domanda è come intercettare i segnali deboli prima che diventino tragedia.

Casi come quello di Oléron mostrano quanto sia fragile la rete di protezione per chi vive ai margini. Le dipendenze non sono cause deterministiche della violenza, ma amplificano impulsività e perdita di controllo. Nei contesti rurali o insulari, dove lo stigma è forte e le strutture sanitarie sono lontane, la solitudine pesa di più. La cronaca racconta, ma dovrebbe anche ricordare che dietro l’orrore c’è spesso un fallimento collettivo: di ascolto, di sostegno, di intervento. E c’è anche una lezione per l’informazione: la necessità di trattenere le etichette, di non ridurre tutto a un titolo o a una categoria. La differenza tra dieci feriti e cinque può sembrare minima, ma rappresenta la distanza tra il clamore e la realtà.

Raccontare Jean G. significa camminare su un filo sottile. Evitare di farne un mostro e, al tempo stesso, di trasformarlo in una vittima assoluta. I dettagli sulla sua vita — le dipendenze, l’isolamento, le ossessioni religiose — non servono ad assolvere, ma a capire come un disagio individuale possa trasformarsi in violenza collettiva. Saranno i magistrati a stabilire la responsabilità penale, la psichiatria a circoscrivere le fragilità, e l’opinione pubblica a non cedere alle scorciatoie ideologiche.

Resta il dolore di cinque famiglie, la paura di un’isola che vive “di faccia”, la consapevolezza che nulla sarà più come prima. Resta un’inchiesta che dovrà dire parole definitive su intenzioni, radicalizzazione ed equilibrio mentale. Resta il dovere di non semplificare, di chiamare le cose col loro nome quando sarà possibile farlo, e di tenere insieme tutti i frammenti: il grido, i precedenti, la solitudine, la corsa di 35 minuti. È lì, in quel tempo sospeso tra due villaggi e cinque feriti, che si annida il senso profondo di ciò che è accaduto a Oléron il 5 novembre 2025.

Foto

L’Île d’Oléron si trova sulla costa atlantica della Francia, nel dipartimento della Charente‑Maritime (regione della Nuova Aquitania). È collegata alla terraferma da un ponte inaugurato nel 1966.

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