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Canoni ridicoli, normative ferma al 1990 e territori spremuti: la verità sulle cave italiane

Dal Piemonte alla Puglia, le cave dismesse crescono più delle attive — e del ripristino neppure l’ombra. Legambiente presenta il Rapporto Cave 2025

Canoni ridicoli, normative ferma al 1990 e territori spremuti: la verità sulle cave italiane

Canoni ridicoli, normative ferma al 1990 e territori spremuti: la verità sulle cave italiane

Domanda d’apertura: come si può parlare di economia circolare se continuiamo a cavare milioni di metri cubi di sabbia e ghiaia come se la natura fosse un bancomat inesauribile? Il nuovo rapporto della Legambiente presentato alla fiera Ecomondo 2025 insieme a Fassa Bortolo dipinge un’Italia in stallo: le cave autorizzate calano – ma i volumi estratti, paradossalmente, aumentano.

L’indagine parte da un passaggio che dovrebbe far riflettere: in Italia il numero delle cave (quelle attive e quelle autorizzate ma inerti) è sceso a 3.378, un calo del 51,3% rispetto al 2008, e del 20,7% rispetto al 2021. All’apparenza un segnale positivo: meno concessioni aperte, quindi meno impatto? Sì e no, perché al contempo la quantità di sabbia e ghiaia prelevata ha toccato 34,6 milioni di metri cubi l’anno (+18,5% rispetto al 2021). E ancora di più: il calcare estratto è arrivato a 51,6 milioni di metri cubi, con un balzo del 92,5%. I materiali ornamentali, invece, calano: 5,5 milioni di m³, -11,3%. Il mix è chiaro: poche cave, ma ogni cava lavora di più o più intensamente. E il paesaggio, il territorio, la rendita sociale, restano sovraesposti.

La contraddizione è netta: chiediamo che il settore estrattivo giochi un ruolo nella transizione ecologica e nell’economia circolare — come insiste Legambiente — ma le regole restano ferma agli anni Venti del secolo scorso. Il decreto quadro risale al 1927, la normativa nazionale appare obsoleta, le leggi regionali frammentate, i canoni di concessione praticamente simbolici (in alcune regioni meno di 50 cent/m³). Il risultato? Il ritorno economico per lo Stato dalle concessioni di sabbia e ghiaia non supera i 20 milioni di euro all’anno, quando con tariffe equiparabili a quelle britanniche (circa il 20 % del valore di mercato) si potrebbero ottenere 66 milioni: oltre 46,5 milioni di mancati introiti. Il cittadino paga due volte: con le cave attive e con le dismesse.

Sul fronte delle cave dismesse il quadro peggiora: sono 14.640, in aumento del 3,5% rispetto al 2021. E la parte che poi effettivamente vede un ripristino ambientale è “minima”, per usare il termine stesso del rapporto. Territori forzati, quasi dimenticati, che restano ferite aperte nel paesaggio senza risorse per essere risarcite o rigenerate.

In questo contesto, Legambiente individua tre priorità non rinviabili. Prima: aumentare il recupero e il riciclo degli inerti provenienti dalla demolizione e dalla costruzione, trasformandoli in alternative credibili agli aggregati tradizionali. Serve tracciabilità dei materiali, demolizione selettiva come criterio nelle gare pubbliche, obiettivi chiari e formazione degli operatori. Second: introdurre un canone minimo nazionale per l’estrazione pari almeno al 20% del valore di mercato, per garantire risorse per il territorio, innovazione, recupero ambientale e competitività del riciclaggio. Terza: rafforzare la tutela del territorio, rendendo obbligatoria l’approvazione e l’aggiornamento dei Piani Regionali per le Attività Estrattive (PRAE) — ancora assenti in sei regioni e una provincia autonoma — per regolamentare prelievi, uso di materiali riciclati, estrazioni sostenibili, recupero delle aree, monitoraggio e contrasto alle infiltrazioni criminali.

La denuncia di Giorgio Zampetti, direttore generale Legambiente, è severa: «È inaccettabile che un settore con forti impatti ambientali ed economici sia ancora regolato da un decreto del 1927, basato su un approccio datato che trascura le ricadute sui territori». Parole che picchiano come un campanello d’allarme: polveri, risorsa idrica, suolo, rumore, vibrazioni, paesaggio, ecosistemi naturali — tutto questo può essere ignorato solo sotto la copertura dell’inerzia normativa. Servirebbe una legge quadro che preveda monitoraggio delle cave attive e dismesse, regole uniformi, Valutazione di Impatto Ambientale obbligatoria, divieto di attività in aree sensibili, incentivi all’uso di materiali riciclati rispetto alle materie vergini.

Il rapporto non si limita ai numeri, ma raccoglie buone pratiche che dimostrano come la trasformazione sia possibile. Il caso della demolizione selettiva dell’ospedale “Misericordia e Dolce” di Prato recupera il 98% dei materiali. Il progetto “Corti di Medoro” a Ferrara ricicla oltre il 99% dei rifiuti. Le cave dismesse possono diventare spazi verdi e culturali: basti pensare al Parco delle Cave di Brescia, al progetto Marco Vito a Lecce, fino all’Eden Project in Cornovaglia. La partnership tra Legambiente e Fassa Bortolo, attiva dal 2017, è un segnalibro di questa direzione: investire su tecnologie innovative, gestione responsabile, pianificazione che coniuga sviluppo umano e tutela dell’ambiente.

Vediamo ora come la situazione si articola sul territorio piemontese — un microcosmo che riflette bene le contraddizioni nazionali. Il Piemonte emerge come una regione chiave nell’estrazione, con 277 cave autorizzate e attive e oltre 1.800 siti dismessi. Nonostante un Piano Cave regionale, i prelievi restano consistenti: oltre 4,5 milioni di m³ di sabbia e ghiaia ogni anno, a cui si aggiungono calcare, argilla, pietre ornamentali. Sul fronte dei canoni, l’entrata annua per sabbia e ghiaia è intorno ai 2,3 milioni di euro, quando con una tariffa più equa — simile a quelle europee — si potrebbero superare gli 8,5 milioni. Una differenza che non può essere ignorata: stiamo parlando di risorse che potrebbero essere dedicate al ripristino ambientale e alla rigenerazione territoriale. Nel dettaglio, la vicenda della cava di Carignano (TO) è emblematico: oltre vent’anni di contenziosi ambientali, una sentenza di oltre cinque milioni di euro a favore del Comune e del Parco del Po, eppure il sito resta degradato, senza interventi di recupero efficaci. La piena del fiume Po del 2000 ha aggravato il rischio idraulico per l’area circostante. Il circolo di Carignano del Legambiente Piemonte chiede chiarezza legislativa e un intervento immediato del Ministero dell’Ambiente, a garanzia della tutela dei territori danneggiati.

Eppure, dalla stessa Regione emergono anche esempi virtuosi. L’ex cava di gneiss Roncino a Crevoladossola (VB) è stata riconvertita in un teatro all’aperto grazie alla Fondazione Tones on the Stones: due palcoscenici, laboratori, aree ricreative, materiali a basse emissioni di CO₂, gestione sostenibile degli eventi. Un progetto che dimostra come un sito estrattivo possa diventare spazio di rinascita, creatività, consapevolezza ambientale.

Ecco cosa afferma Alice De Marco, presidente di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta: «Il nuovo Piano Regionale delle Attività Estrattive, approvato dal Consiglio regionale il 30 settembre, rappresenta un passo importante ma ancora insufficiente rispetto alle esigenze reali del territorio». Parole nette. Il piano introduce elementi positivi di programmazione e controllo, ma non risponde pienamente alla richiesta di una gestione più trasparente, partecipata, sostenibile delle cave. Occorre rafforzare il monitoraggio, prevedere tempi certi per i ripristini e valorizzare esperienze come quella di Roncino. Solo così il territorio piemontese potrà davvero coniugare tutela del paesaggio, sicurezza e sviluppo sostenibile.

Analizzare questi dati, queste pratiche, queste richieste significa guardare all’estrazione non solo come esercizio produttivo ma come scelta di politica territoriale, ambientale e sociale. In un Paese come l’Italia, dove il suolo non è infinito e il paesaggio è un bene comune, dare priorità al prelievo selvaggio a scapito del riciclo e della rigenerazione significa tradire un’intera visione comunitaria.

L’estrattivo, contrariamente a quanto si dice, può diventare motore di economia circolare: impresa innovativa, posti di lavoro qualificati, riconversione verde, ripristino ambientale. Però — ed è qui che si gioca la partita — serve una regolazione credibile, seri controlli, tariffe che riflettano il valore reale delle risorse, una cultura del riciclo che diventi pratica di tutti i giorni.

Se non cambiamo rotta, rischiamo che i siti estrattivi rimangano ferite aperte nel paesaggio, che le generazioni future ereditino cave abbandonate e che le nostre ricchezze naturali vengano spremute fino all’ultimo metro cubo. Invece possiamo — e dobbiamo — trasformarle in opportunità.

La sfida è lanciata: trasformare il prelievo in rigenerazione, la cava in teatro della natura, il materiale vergine in risorsa circolare. Sta a chi governa — Stato, Regioni, imprese — decidere se continuare a scavare o iniziare a ricostruire. Sentiamo ancora l’eco dello scavo o già intravediamo il suono del recupero?

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