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Silicon Box, il fantasma dei microchip: a Novara doveva nascere la Silicon Valley italiana. Non è successo niente

Tre miliardi di investimento, 1.600 posti di lavoro promessi e una valanga di annunci istituzionali. Oggi, al posto del distretto dei chip, solo campi vuoti e silenzio

Silicon Box, il fantasma dei microchip: a Novara doveva nascere la Silicon Valley italiana. Non è successo niente

Silicon Box, il fantasma dei microchip: a Novara doveva nascere la Silicon Valley italiana. Non è successo niente

Tre miliardi e duecento milioni di euro. Mille e seicento posti di lavoro. Un impianto per chip di ultima generazione. E la promessa — sbandierata da ministeri, Regione e investitori — di trasformare Novara nella capitale italiana della microelettronica. Oggi, invece, la domanda che aleggia tra i capannoni vuoti di Agognate, nei pressi del casello autostradale di Novara Ovest, è semplice e inquietante: che fine ha fatto Silicon Box?

Quando nel giugno 2024 l’azienda di Singapore annunciò di aver scelto l’Italia per costruire il suo primo stabilimento europeo, l’entusiasmo fu immediato. Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, parlò di un “investimento epocale” e di una “nuova stagione per l’industria nazionale dei semiconduttori”. La Regione Piemonte esultò: “Un polo tecnologico destinato a ridefinire il futuro industriale del Nord Italia.” L’azienda prometteva un sito produttivo per il cosiddetto advanced packaging, ovvero l’assemblaggio e l’interconnessione dei chiplet, elementi chiave per l’intelligenza artificiale e l’elettronica ad alte prestazioni.

Il progetto aveva una cifra precisa: 3,2 miliardi di euro, di cui circa 1,3 miliardi coperti da fondi pubblici italiani ed europei, autorizzati di recente anche dalla Commissione europea come “aiuto di Stato compatibile” con le regole del Chips Act. Una montagna di denaro e un’occasione di riscatto industriale per una zona che, tra delocalizzazioni e capannoni abbandonati, non vedeva investimenti così ambiziosi da decenni.

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Ma dietro il luccichio degli annunci si nasconde una verità più complessa: Silicon Box non è un colosso consolidato, bensì una startup fondata nel 2021 a Singapore da tre volti noti del settore — Byung Joon Han, Sehat Sutardja e Weili Dai, già protagonisti della storia di Marvell Technology, una delle aziende più importanti nella progettazione di semiconduttori a livello globale. Un pedigree prestigioso, ma pur sempre legato a un’azienda giovane, che ha costruito il proprio impianto pilota solo nel 2022 e che oggi dipende da una rete di finanziatori internazionali.

Tra questi figurano fondi e colossi del venture capital come Hillhouse Capital, Lam Capital (braccio di investimento della statunitense Lam Research), TDK Ventures, UMC Capital (legata al gruppo taiwanese United Microelectronics Corporation), e persino Tata Electronics dall’India. Nel 2024, Silicon Box ha raccolto oltre 200 milioni di dollari in un round di finanziamento che le ha consentito di superare la soglia simbolica dell’“unicorno”, ossia una valutazione di mercato superiore al miliardo di dollari. Ma questo, da solo, non basta a garantire la solidità di un investimento industriale da 3,2 miliardi in Europa.

E infatti, da mesi, le voci di incertezza si moltiplicano. L’accordo per l’impianto novarese doveva essere definito entro la prima metà del 2025, ma nessuna firma definitiva è stata ancora resa pubblica. Fonti vicine al Mimit assicurano che “i contatti con Invitalia e l’azienda sono costanti e positivi”, ma sul territorio non si muove una foglia. A Novara, dove l’area di Agognate era stata indicata come sito prescelto, non ci sono ruspe, non ci sono operai, non c’è neppure un cartello di cantiere.

Il motivo? Lo stesso che sta rallentando o cancellando mezza Europa dei semiconduttori. Il mercato globale dei chip, dopo l’euforia post-pandemia, è entrato in una fase di instabilità profonda. L’industria è schiacciata tra l’incertezza geopolitica, la carenza di materie prime e la concorrenza feroce tra Stati Uniti e Cina, che si combattono a colpi di sussidi e dazi. In questo scenario, anche i giganti traballano.

Intel, che aveva annunciato investimenti per 35 miliardi tra Germania e Polonia, ha già rallentato i piani e chiuso alcuni cantieri. In Francia, il grande progetto della fabbrica di Crolles da 5,7 miliardi si è ridotto drasticamente dopo il disimpegno di GlobalFoundries. Wolfspeed, in Germania, ha congelato il suo impianto da 3 miliardi, mentre Broadcom ha cancellato in Spagna un investimento da un miliardo di dollari. Insomma, quando persino i colossi fanno marcia indietro, immaginare che una startup di Singapore possa reggere la tempesta appare sempre più difficile.

Eppure, in Italia, il governo ostenta fiducia. Secondo il Mimit, il progetto è “vivo” e “strategico”, e l’autorizzazione della Commissione europea agli aiuti di Stato rappresenta una garanzia. Ma nelle righe del documento di Bruxelles si legge anche che “senza il sostegno pubblico, il beneficiario non realizzerebbe l’investimento in Europa”. Una frase che suona più come un avvertimento che come una rassicurazione.

Gli investitori, dal canto loro, osservano. Alcuni — come Lam Capital e TDK Ventures — hanno tutto l’interesse a spingere Silicon Box in Europa, per ampliare la filiera del packaging avanzato e inserirsi nei programmi europei del Chips Act. Altri, però, potrebbero ritenere troppo rischioso espandersi in un mercato ancora frammentato e lento nelle autorizzazioni. Il risultato è che il progetto di Novara sembra sospeso in una bolla, tra le ambizioni italiane e le incertezze globali.

Intanto, sul territorio, cresce la delusione. Gli enti locali parlano di “un’occasione che non possiamo permetterci di perdere”, ma in molti temono che finirà come troppe altre storie italiane: grandi conferenze stampa, memorandum d’intesa, e poi il nulla. L’area di Agognate è ancora ferma, le università non hanno ricevuto piani formativi concreti, e le imprese locali che speravano di entrare nella filiera restano a guardare.

Eppure, le cifre restano imponenti: un impianto che, a regime, potrebbe generare oltre 3.000 posti di lavoro complessivi, tra diretti e indiretti, e un indotto potenzialmente capace di rivitalizzare logistica, trasporti e servizi in tutto il quadrante piemontese e lombardo. Un’occasione irripetibile, che però oggi somiglia sempre più a una chimera.

Non è ancora il momento di parlare di fallimento, ma la parabola di Silicon Box assomiglia già troppo a quella di tanti altri sogni industriali italiani: annunci fragorosi, entusiasmi bipartisan, e poi una lenta evaporazione nella nebbia. Il progetto non è morto, si affrettano a dire a Roma. Ma la realtà, almeno per ora, è che del più grande investimento industriale degli ultimi anni non esiste ancora nulla di concreto.

E allora la domanda resta sospesa, come un’eco tra le risaie e le autostrade del Novarese: Silicon Box arriverà davvero, o resterà solo il nome di un miraggio da 3,2 miliardi?

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