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03 Novembre 2025 - 22:48
									La prima immagine è in bianco e nero: una scia, una barca veloce, un bagliore improvviso. La notte dei Caraibi si illumina a intermittenza, come se qualcuno avesse acceso e spento il mare. Le clip rimbalzano sui social ufficiali di Washington, accompagnate da didascalie perentorie: “Vettore del narcotraffico neutralizzato.”
Nel frattempo, in tv, Donald Trump siede di fronte alla giornalista Norah O’Donnell negli studi di 60 Minutes e frena: “Andremo in guerra contro il Venezuela? Lo dubito.” Poi, quasi nello stesso respiro, aggiunge che i giorni di Nicolás Maduro “sono contati.” Due frasi che convivono in tensione, mentre Marina e Aeronautica statunitensi moltiplicano i raid contro imbarcazioni sospettate di trasportare droga tra i Caraibi e il Pacifico orientale. Dall’inizio di settembre a oggi i morti stimati sono almeno 64, secondo un conteggio di CBS News.
Nell’intervista andata in onda la sera di domenica 2 novembre 2025, il presidente Trump ha mantenuto una linea ambivalente: ha “dubitato” che gli Stati Uniti stiano per dichiarare guerra al Venezuela, ma ha ribadito che Maduro sia “a fine corsa.” Il passaggio è significativo perché arriva in un momento di forte aumento della pressione militare statunitense nella regione, con ampio dispiegamento navale e un ritmo di attacchi di precisione senza precedenti recenti. Resoconti convergenti di media statunitensi e internazionali confermano la sostanza di quelle affermazioni e del contesto operativo in mare.
Dal primo fine settimana di settembre 2025, gli Stati Uniti hanno condotto almeno 15 strike letali nei Caraibi e nel Pacifico orientale. Solo tra il 27 e il 31 ottobre, quattro attacchi nell’Est Pacifico hanno ucciso 14 persone; il totale dei morti dell’intera campagna, aggiornato a inizio novembre, sale ad almeno 64. È il bilancio diffuso da CBS News, confermato da Associated Press, Time e Washington Post. Il Pentagono sostiene che le imbarcazioni colpite facciano parte di reti di narcotraffico gestite da gruppi etichettati come “organizzazioni terroristiche,” ma finora non ha pubblicato prove verificabili su carichi, catene di comando o appartenenze dei deceduti.
Secondo il segretario alla Difesa Pete Hegseth, ogni target è stato selezionato sulla base di “intelligence certa” e colpito lungo “rotte note del narcotraffico.” In più occasioni, Hegseth ha presentato gli attacchi come parte di un “conflitto armato” tra gli USA e i cartelli della droga, un linguaggio giuridico che richiama quello della guerra al terrore. Alcuni parlamentari – anche repubblicani – hanno chiesto maggiore trasparenza sulle basi legali, sugli obiettivi e sugli effetti collaterali.
Le autorità statunitensi indicano tra i presunti attori delle reti colpite il Tren de Aragua (organizzazione criminale venezuelana) e l’ELN colombiano, qualificati come “narcoterroristi.” Tuttavia, i comunicati pubblici non hanno sinora fornito riscontri documentali accessibili che colleghino ciascuna barca colpita a questi gruppi. In almeno un caso, una famiglia ha contestato l’affiliazione a cartelli di una delle vittime, sostenendo che si trattasse di un pescatore. È uno dei molti punti in cui la narrativa ufficiale incontra dubbi giornalistici e giuridici.
Sul piano del diritto interno, gli USA si appoggiano al Maritime Drug Law Enforcement Act (MDLEA, 1986), che estende in modo ampio la giurisdizione statunitense contro il traffico di droga in alto mare, in particolare su navi senza nazionalità o con il consenso dello Stato di bandiera. È una cornice usata da decenni, soprattutto dalla US Coast Guard, per fermare, salire a bordo e sequestrare. Ma il passaggio da un’operazione di law enforcement all’uso di forza letale a distanza – con missili o munizioni guidate – solleva questioni complesse: il MDLEA non è, da solo, un’autorizzazione all’impiego della forza militare contro sospetti di reati comuni al di fuori di un conflitto armato.
Sul versante internazionale, i critici richiamano l’articolo 2(4) della Carta ONU (divieto dell’uso della forza) e la giurisprudenza che limita il ricorso alla legittima difesa (art. 51) ai casi di “attacco armato” in corso o imminente. L’idea che il narcotraffico costituisca di per sé un “attacco armato” è considerata da molti debolmente sostenibile. Per questo esperti ONU e ONG per i diritti umani hanno definito i raid “esecuzioni extragiudiziali” e chiesto la loro immediata cessazione, segnalando possibili violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto del mare.

La Casa Bianca e il Pentagono replicano che le unità colpite operano per “organizzazioni terroristiche designate,” che l’intelligence indicava carichi di narcotici a bordo e che gli strike sono necessari per interrompere un flusso di droghe sintetiche e cocaina che – è la tesi di Trump – “uccide decine di migliaia di americani ogni anno.” A sostegno della pressione su Caracas, l’amministrazione ha aumentato la taglia su Maduro fino a 50 milioni di dollari, un gesto politico e simbolico che innesta la dimensione criminale in quella geopolitica. Resta però la distanza, sottolineata da giuristi e Nazioni Unite, tra riconoscere la gravità del fenomeno e legittimare un uso sistematico e letale della forza militare in alto mare contro sospetti non combattenti.
Il quadro penale a carico di Nicolás Maduro non nasce oggi. Nel marzo 2020, il Dipartimento di Giustizia e la DEAhanno annunciato capi d’imputazione per narcoterrorismo e cospirazione per il traffico di cocaina verso gli USA, accusando l’allora presidente di aver agito in sinergia con settori delle ex FARC e il Cartel de los Soles. Su Maduro pende da anni una taglia: la cifra, in manovre successive, è stata innalzata in più step fino agli attuali 50 milioni di dollari. Caracas respinge tutto come “propaganda politica.”
Le capitali latinoamericane osservano con crescente inquietudine. La Colombia, partner storico degli USA nella lotta ai cartelli, ha chiesto di fermare gli strike in mare, definendoli “omicidi.” Da Città del Messico a Brasilia, passando per Bogotá e Quito, si moltiplicano appelli alla de-escalation e al rispetto del diritto del mare. Anche la Cina, grande partner commerciale del Venezuela, ha criticato le azioni statunitensi come un pericolo per la libertà di navigazione. Intanto, il Comando Sud rafforza una task force interforze focalizzata sulle rotte marittime, con la partecipazione della II Marine Expeditionary Force. Segnali opposti che aumentano il rumore strategico.

È qui che la doppia frase di Trump trova senso: “Non credo” alla guerra, ma i giorni di Maduro “sono contati.”L’amministrazione sembra voler restare nella zona grigia di una “massima pressione” senza invasione: sanzioni calibrate, taglie al rialzo, dispiegamento navale, bombe contro il narcotraffico e un apparato retorico che collega droga, terrorismo e regime change. Un equilibrio rischioso, perché qualsiasi incidente – un errore di targeting, una barca che si rivela non armata, un colpo ritorsivo – potrebbe innescare la spirale che la stessa Casa Bianca dice di voler evitare.
Una radio gracchia dal cruscotto di un taxi collettivo ai margini di Caracas: tra una notizia di cronaca nera e l’ennesimo blackout in periferia, scorre la voce di María Corina Machado. “La maggioranza dei venezuelani sostiene il presidente Trump,” dice. Accanto, un passeggero annuisce, passaporto in grembo: pronto, come tanti, a partire verso il confine colombiano.
Dietro quella dichiarazione – forte, divisiva, programmatica – c’è un’agenda di pressione multilivello su Maduro, un apparato di sanzioni, una campagna contro il narcotraffico e la designazione del Tren de Aragua come Foreign Terrorist Organization. E c’è, soprattutto, l’enorme diaspora di un Paese da cui sono fuggite oltre 7,8 milioni di persone in pochi anni. Sullo sfondo, il riconoscimento internazionale a Machado – il Premio Nobel per la Pace 2025 – e la promessa di una “transizione ordinata” dalla dittatura alla democrazia.

Nell’intervista a Fox News del 3 novembre 2025, rilanciata da ANSA, Machado sostiene che i venezuelani appoggiano la strategia di Trump contro i cartelli della droga e la crescente pressione sul regime di Maduro. Ha definito “visionaria” la dottrina di Trump sulla sicurezza emisferica e ha difeso apertamente gli attacchi mirati contro imbarcazioni sospettate di traffico di droga al largo del Venezuela.
Il passaggio chiave – “la maggioranza dei venezuelani sostiene Trump” – è una dichiarazione politica, non un dato demoscopico, ma fotografa una tendenza reale tra i segmenti più attivi della diaspora, specie nel Sud della Florida. Per Machado, legare la causa venezuelana a Washington significa trasformare la massima pressione in leva di transizione. Il 10 ottobre 2025 ha ricevuto il Nobel per la Pace, che ha “dedicato al popolo venezuelano e al presidente Trump per il suo supporto decisivo.”
Da allora ha ripetuto che solo una escalation controllata di pressione può spingere Maduro a lasciare il potere. Le sue parole arrivano dopo le elezioni del 28 luglio 2024, che il Consiglio Elettorale ha assegnato a Maduro, ma che l’opposizione – presentatasi con Edmundo González Urrutia dopo l’estromissione di Machado – rivendica di aver vinto. La repressione, intanto, non si è fermata.
Nel frattempo, la crisi umanitaria continua: secondo l’UNHCR, i venezuelani rifugiati, migranti o bisognosi di protezione superano i 7,8 milioni, con la grande maggioranza nei Paesi latinoamericani. È un Paese in esodo, con un’economia deindustrializzata e servizi al collasso. Questo dato demografico – milioni di biografie in fuga – è il più potente “argomento” di Machado quando parla a Washington.
Dal 2025, la Casa Bianca ha allargato l’offensiva legale e militare contro i network criminali considerati contigui o funzionali al regime: il 20 febbraio ha designato il Tren de Aragua come FTO; il 17 luglio il Tesoro (OFAC) ha sanzionato il capo Héctor “Niño” Guerrero e altri vertici; in parallelo, la Marina USA ha alzato la postura nel Caribe, con un dispositivo navale e aereo senza precedenti dagli anni ’90.
È il tassello “duro” della dottrina Make America Safe Again declinata nell’emisfero: colpire le finanze dei cartelli, interrompere i flussi di droga, incrinare le reti politiche che – secondo Washington – legano narcotraffico e potere. In questa cornice, la giustizia federale ha usato strumenti antiterrorismo contro quadri di Tren de Aragua, e la Casa Bianca ha invocato perfino l’Alien Enemies Act per giustificare rimpatri accelerati. Misure durissime, salutate da Machado come necessarie a scardinare il “complesso criminale” che “mantiene al potere” Maduro.
Ad agosto 2025, gli Stati Uniti hanno raddoppiato a 50 milioni di dollari la ricompensa per informazioni che portino all’arresto di Maduro, incriminato sin dal 2020 per narco-terrorismo. La mossa – annunciata dalla Attorney General Pam Bondi – ha valore simbolico e operativo: restringe ulteriormente gli spazi internazionali di movimento di Maduro e segnala che Washington non intende normalizzare i rapporti con il regime. Caracas ha bollato la misura come “propaganda,” ma per l’opposizione è un segnale che il “tempo dell’impunità” si accorcia.

Nel suo messaggio, Machado lega tre parole: forza, libertà, pace. Il suo assunto è semplice: senza forza non c’è libertà; senza libertà non c’è pace. Per questo difende la distruzione in mare di imbarcazioni sospette dirette verso acque statunitensi, una tattica che secondo i critici comporta rischi d’errore letale e gravi implicazioni di diritto internazionale. Machado replica che la violenza nasce dai cartelli e dal regime che li protegge, e che l’azione decisa “salva vite” fermando fentanyl e cocaina prima che raggiungano le città americane.
Nel racconto di Washington e dell’opposizione, il Tren de Aragua è la cerniera che collega estorsioni, tratta, droga e migrazioni irregolari dalla regione andina al confine USA. Per il Tesoro, il gruppo – nato nelle carceri venezuelane – si è evoluto in rete transnazionale. La designazione come FTO e le indagini federali (dalle incriminazioni in Colorado al caso di omicidio nel Bronx) mostrano l’ampiezza dell’azione repressiva. Resta dibattuto, anche tra fonti statunitensi, quanto Maduro controlli direttamente la rete criminale.
La postura americana nel Caribe – con navi, F-35 e forze navali “la più grande dal 1994” – ha prodotto un effetto anche psicologico in Venezuela. L’opposizione parla di una spinta alla diserzione silenziosa tra i ranghi militari e di un regime costretto a militarizzare la propaganda interna. Maduro denuncia un’operazione di regime change mascherata da lotta al narcotraffico; Machado ribatte che il cambio dovrà essere “fatto dai venezuelani,” ma non nasconde il sostegno alla pressione esterna. È un equilibrio precario, in cui ogni episodio in mare rischia di trasformarsi in crisi internazionale.
Se ampi settori della diaspora venezuelana guardano con favore alla linea dura di Washington, le politiche migratorie restrittive hanno però creato frizioni, specie negli Stati Uniti. Anche leader repubblicani della Florida hanno chiesto di rivedere alcune norme sul TPS, per non penalizzare famiglie integrate che pure simpatizzano per la causa di Machado. Qui la politica estera della massima pressione incrocia la politica interna americana, producendo un consenso non sempre lineare.
Per Machado, la soluzione è politica: liberare il Paese per fermare l’esodo.
E mentre il mare dei Caraibi continua a lampeggiare di esplosioni intermittenti, il confine tra giustizia e guerra resta un punto mobile sull’orizzonte americano.
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