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Esteri
03 Novembre 2025 - 19:34
												Bola Tinubu
Un uomo sfoglia i quotidiani sotto il sole di Lagos. Titoli in corpo enorme, fotografie di mercati bruciati, editoriali in fiamme. La scena, catturata domenica, racconta meglio di qualunque conferenza stampa il cortocircuito diplomatico innescato da Donald Trump. Il 2 novembre 2025, il presidente statunitense ha dichiarato che “potrebbero esserci truppe Usa sul terreno in Nigeria, oppure raid aerei”, per fermare quelli che definisce “omicidi di cristiani su larga scala”.
Il giorno prima, su Truth Social, aveva rincarato: “Se il governo nigeriano continuerà a permettere l’uccisione di cristiani, gli Stati Uniti sospenderanno immediatamente gli aiuti e potrebbero entrare in quel Paese ‘con le armi spianate’ per annientare i terroristi islamici responsabili”. Poco dopo, la Casa Bianca ha ridefinito lo status di Abuja come “Country of Particular Concern (CPC)”, la categoria più grave con cui Washington giudica le violazioni della libertà religiosa.
Di fronte alla minaccia, Bola Ahmed Tinubu ha risposto con un doppio registro: disponibilità a “cooperare contro i gruppi jihadisti”, ma solo nel “pieno rispetto della sovranità nigeriana”. Ha chiesto un incontro urgente con Trump. Al 3 novembre nessuna data è ancora fissata, mentre la presidenza di Abuja ha smentito le voci di un viaggio imminente negli Stati Uniti per incontrare il vicepresidente J.D. Vance: “Non è in agenda, e se andasse alla Casa Bianca vedrebbe il presidente”, ha puntualizzato il consigliere Temitope Ajayi.
Nel suo messaggio, Trump ha usato parole che, per tono e contenuto, hanno pochi precedenti nelle relazioni con la Nigeria, alleata chiave del Golfo di Guinea: “La Cristianità è sotto minaccia esistenziale in Nigeria… Se attaccheremo, sarà rapido, violento e dolce, proprio come i terroristi attaccano i nostri cristiani”. Subito dopo ha ordinato lo stop agli aiuti non umanitari e chiesto al Pentagono di prepararsi ad “azioni possibili”. Il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha risposto su X: “Sì, signore”.
Tra gli strumenti sul tavolo c’è l’arsenale dell’International Religious Freedom Act (IRFA): la designazione CPC permette sanzioni mirate, restrizioni sui visti, sospensione dell’assistenza e congelamento dei programmi di sicurezza non essenziali.
La mossa arriva dopo settimane di pressioni di parlamentari repubblicani, come Riley Moore, e delle reti cristiane conservatrici che denunciano un “genocidio dei cristiani” in Nigeria. Una risoluzione della Camera ha quantificato gli aiuti Usa dal FY2020: oltre 3,53 miliardi di dollari impegnati (2,24 miliardi effettivamente erogati) in assistenza non militare, più 83,5 milioni dal Dipartimento della Difesa per la sicurezza. Tutti fondi ora sul tavolo della contesa.
Tinubu respinge con forza la lettura “confessionale” del conflitto. “La caratterizzazione della Nigeria come Paese religiosamente intollerante non riflette la nostra realtà”, ha scritto su X, ricordando le garanzie costituzionali e la composizione di un Paese di 220 milioni di abitanti, divisi quasi a metà tra musulmani e cristiani. Consiglieri di Aso Rock – tra cui Daniel Bwala – sottolineano che le principali vittime del terrorismo di Boko Haram e ISWAP, nel Nord-Est, restano proprio i musulmani. Nel Middle Belt, invece, la violenza intreccia fratture etniche, dispute fondiarie e banditismo. “Aiuto sì, ma la sovranità non si tocca”, è il mantra di Abuja.
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Sul piano diplomatico, Tinubu punta a un confronto diretto con Trump. Le voci su un viaggio lampo negli Usa per vedere il vicepresidente Vance sono state smentite, mentre da Abuja si ribadisce che eventuali colloqui “avverranno solo tra capi di Stato”. Alcune figure di spicco della politica nigeriana propongono un’azione di “engagement” più aggressiva con Washington, coinvolgendo veterani della diplomazia come Emeka Anyaoku o Amina Mohammed.
Il nodo più controverso è quello dei numeri. Organizzazioni cristiane – e una parte della stampa conservatrice americana – parlano di oltre 7.000 cristiani uccisi nei primi mesi del 2025, citando la Ong nigeriana Intersociety e i report di Open Doors. Ma in ambito accademico e giornalistico mainstream prevale cautela: i dataset indipendenti mostrano una violenza che colpisce comunità miste, con una quota significativa di musulmani tra le vittime nel Nord-Est. Il quadro è gravissimo, ma eterogeneo: jihadismo, conflitti agrari tra pastori fulani e agricoltori, banditismo, separatismi nel Sud-Est.
Un episodio-simbolo resta il massacro di Yelwata (Benue). Tra il 13 e 14 giugno 2025, attacchi notturni hanno ucciso almeno 100 persone – secondo Amnesty International e Associated Press – e costretto migliaia di civili alla fuga, molti dei quali accolti in una missione cattolica. Reuters ha documentato corpi carbonizzati e mercati devastati; Tinubu ha promesso una “stretta sulla sicurezza”. È questa scia di violenza, non sempre riconducibile a una matrice unica, ad aver riacceso la miccia politica a Washington.
Nel fronte cristiano nigeriano, ambienti del Pentecostal Fellowship of Nigeria hanno accolto le parole di Trump come “il suono della tromba su un genocidio ignorato”. La Christian Association of Nigeria (CAN) ha annunciato una posizione ufficiale, mentre nel campo musulmano sigle come MURIC contestano l’idea stessa di una “persecuzione sistematica dei cristiani”. La spaccatura attraversa anche la diaspora e il mondo dei diritti umani.
Negli Stati Uniti la pressione politica è cresciuta: oltre al deputato Moore, settori dell’episcopato cattolico e think tank cristiani hanno scritto a Trump chiedendo la CPC e una linea più dura su Abuja. Nelle tv e nei talk della destra religiosa, la narrativa del “genocidio cristiano” è ormai mainstream, spingendo la Casa Bianca su un crinale pericolosamente aggressivo.
La crisi nigeriana non si risolve con l’iperbole. Servono una polizia giudiziaria efficiente, tribunali che funzionino, lotta alla corruzione nelle catene di comando locali, politiche di terra e acqua per disinnescare il conflitto tra pastori e agricoltori, e un controllo reale sulle armi leggere che inondano il Sahel. Sul fronte religioso, servono iniziative di mediazione interconfessionale e protezione dei leader che denunciano gli abusi.
Gli Stati Uniti possono aiutare – anche con leve di condizionalità – ma il baricentro resta ad Abuja, nei villaggi e negli Stati federati più colpiti. Intanto, la frase “guns-a-blazing” continuerà a campeggiare sulle prime pagine di Lagos e Abuja. Ma oltre il clamore, l’unica misura che conta è se nei villaggi del Benue, del Plateau o del Borno si smetterà di contare i morti.
Più che l’ennesima guerra mediatica, serve un negoziato duro, trasparente e verificabile: numeri alla mano, impegni scritti, scadenze e verifiche indipendenti.
Che cos’è la lista “CPC” e perché conta davvero
La designazione di Country of Particular Concern nasce con l’IRFA del 1998 e individua i Paesi che commettono o tollerano violazioni sistematiche della libertà religiosa. Non implica automaticamente sanzioni, ma autorizza misure che vanno dall’embargo su aiuti non umanitari al congelamento di forniture militari, fino a sanzioni mirate su individui e istituzioni.
Nel 2020 la Nigeria era entrata nella lista; nel 2023 ne era uscita; oggi ci rientra per decisione politica della nuova amministrazione. La commissione indipendente USCIRF aveva più volte sollecitato il Dipartimento di Stato a fare questo passo, indicando anche Boko Haram e ISWAP come “entità di particolare preoccupazione”.
Per Abuja il rischio è concreto: dal FY2020 gli Stati Uniti hanno impegnato oltre 3,53 miliardi di dollari in progetti civili e più di 83 milioni in assistenza militare. In caso di irrigidimento, la stretta colpirebbe programmi di sicurezza alimentare, sanità, governance e formazione delle forze dell’ordine.
Perché ora: la sequenza degli eventi
31 ottobre 2025: Trump annuncia l’intenzione di ridefinire la Nigeria come CPC per violazioni alla libertà religiosa.
1° novembre: minaccia lo stop agli aiuti e ordina al Pentagono di pianificare opzioni militari.
2 novembre: ribadisce che “potrebbero esserci truppe o raid aerei” in Nigeria, mentre a bordo dell’Air Force One rientra a Washington.
Nel frattempo, la commissione federale USCIRF raccomanda da anni di inserire la Nigeria nella lista dei CPC. La differenza, oggi, è che la Casa Bianca di Trump ha scelto la via dura.
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