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03 Novembre 2025 - 09:43
Marocco in fiamme: la generazione Z sfida il re e il governo
C’è un vento che soffia sulle piazze del Marocco. Non è solo rabbia: è attesa, è frustrazione, è la voce di una generazione che non vuole più accontentarsi. La protesta che attraversa il Paese da settimane ha un nome semplice e diretto, GenZ 212, dal prefisso internazionale del Marocco. Dietro quell’etichetta, che suona come un hashtag, c’è la gioventù marocchina: studenti, disoccupati, giovani madri, piccoli lavoratori informali, e perfino bambini che sfilano con cartelli scritti a mano. È un movimento nato sul web e cresciuto nelle strade, organizzato sui server di Discord e sui video virali di TikTok, poi esploso nelle piazze di Rabat, Casablanca, Marrakesh e Agadir. Si definiscono “la generazione del cambiamento” e hanno deciso di alzare la voce in un Paese che li ha ascoltati troppo poco.
Tutto è iniziato verso la fine di settembre, quando il video di un gruppo di ragazzi di Casablanca – stanchi per l’ennesimo blackout in un ospedale pubblico – è diventato virale. Da quel momento, una catena di mobilitazioni ha trasformato il malessere individuale in protesta collettiva. I giovani del GenZ 212 chiedono ciò che considerano diritti minimi: ospedali funzionanti, scuole sicure, un lavoro dignitoso. “Vogliamo ospedali, non solo stadi”, si legge su uno striscione che ormai è diventato il simbolo del movimento. Le manifestazioni sono cominciate a Rabat e si sono diffuse come un contagio positivo in tutto il Paese: Agadir, Oujda, Inezgane, Aït Amira. A unire tutti, la sensazione di vivere in un Paese che corre verso il futuro con le grandi opere, ma lascia indietro i suoi figli.
I numeri raccontano più delle parole. Oltre la metà dei marocchini ha meno di 35 anni, e il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 36 per cento. Per molti, la scuola non è più un trampolino ma un vicolo cieco. Le tragedie si moltiplicano: otto donne morte durante un parto cesareo in un ospedale di Agadir, studenti che protestano per mancanza di aule, famiglie costrette a spostarsi di centinaia di chilometri per trovare cure mediche. La scintilla era inevitabile. In un Paese che investe miliardi di dirham in infrastrutture sportive, come gli stadi per il Mondiale del 2030, la gente chiede ora: “Perché non investire nella vita, invece che nei simboli?”.
Le proteste si sono moltiplicate giorno dopo giorno. Il 28 settembre la prima grande manifestazione a Rabat, seguita da Casablanca e Marrakesh. Il 29 settembre la mobilitazione è esplosa: blocchi stradali, cortei spontanei, centinaia di persone in marcia pacifica con lo stesso grido — “Dignità!”. Il 30 settembre la tensione è salita: scontri ad Aït Amira, un giovane ferito gravemente a Oujda. Le immagini diffuse sui social mostrano studenti con le mani alzate, fronteggiati da blindati della polizia. La risposta dello Stato è arrivata immediata: 409 arresti, 263 agenti e 23 civili feriti, secondo le stime ufficiali. Ma nonostante la repressione, le piazze non si sono svuotate.
A differenza di molte proteste del passato, GenZ 212 non ha un leader, non ha partiti di riferimento. È un movimento orizzontale, liquido, che vive sui social e nelle strade. Su Instagram e TikTok si moltiplicano i video con lo stesso messaggio: “Non vogliamo emigrare, vogliamo vivere qui”. Molti manifestanti sono nati dopo il 2000, cresciuti con Internet e senza il mito della monarchia paternalista. La loro forza è la spontaneità, ma anche la loro debolezza: non c’è un interlocutore ufficiale, e per questo lo Stato fatica a capire con chi parlare.

La reazione del governo, guidato da Aziz Akhannouch, è stata inizialmente difensiva. Il primo ministro ha dichiarato che “il Marocco non è sordo” e che “le istanze giovanili saranno ascoltate”. Poche ore dopo però sono arrivate le prime accuse di “disordini”, gli arresti, e le immagini dei manganelli. Il Re, Mohammed VI, ha rotto il silenzio il 10 ottobre, con un discorso davanti al Parlamento che ha avuto l’effetto di una scossa. “La giustizia sociale non è una priorità temporanea, è una direzione strategica che deve governare tutte le nostre politiche di sviluppo”, ha detto il sovrano, richiamando il governo a “non far competere i grandi progetti nazionali con i programmi sociali”. Un intervento accolto con rispetto ma anche con scetticismo: i giovani vogliono fatti, non parole.
Pochi giorni dopo il discorso del Re, il governo ha annunciato un aumento del bilancio per sanità e istruzione del 16 per cento, pari a circa 140 miliardi di dirham (quasi 15 miliardi di dollari) nel 2026. È stata anche promessa una legge per favorire l’ingresso in politica dei giovani sotto i 35 anni, con la copertura fino al 75 per cento dei costi di campagna. Ma il movimento GenZ 212 non si è lasciato incantare: le proteste sono riprese, e molti slogan sono diventati più amari. “Non vogliamo promesse, vogliamo vita”, si legge sui muri di Agadir. “Abbiamo fame, non di applausi ma di pane”, urlano nelle piazze di Marrakesh.
Nei giorni più tesi, si sono registrati momenti di violenza. A Lqliâa, vicino ad Agadir, tre giovani sono stati uccisi durante una manifestazione che doveva essere pacifica. Altri sono finiti in carcere: secondo fonti ufficiali, oltre 2.400 persone sono state incriminate per aver partecipato ai cortei o averli sostenuti online. Organizzazioni per i diritti umani denunciano violazioni, intimidazioni, censure. Eppure, nelle piazze, l’atmosfera non è di sconfitta. È la determinazione di chi sa che sta scrivendo una pagina nuova della propria storia.
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Il linguaggio delle proteste è inedito. Accanto ai cartelli, ci sono canzoni rap, murales, performance improvvisate. Un ragazzo a Casablanca suona un oud con sopra la scritta “Libertà”, una ragazza a Rabat legge poesie sul marciapiede. È la prima mobilitazione marocchina del nuovo secolo che unisce il linguaggio digitale e quello della strada. Le parole viaggiano più veloci dei proiettili di gomma, e il governo non riesce a controllarle.
Le richieste rimangono semplici, ma radicali. Sanità pubblica funzionante. Istruzione gratuita e accessibile. Lavoro vero, non contratti temporanei o assistenzialismo. Partecipazione politica reale. E soprattutto, una cosa: rispetto. Perché, come dice una scritta apparsa su un muro di Casablanca, “siamo giovani, non parassiti”. È una frase che racconta tutto: l’orgoglio di una generazione che rifiuta l’etichetta di peso, di problema, di fastidio.
Lo Stato, per ora, prova a tenere la posizione. Il premier Akhannouch parla di “dialogo costruttivo”, il Re richiama alla calma e alla coesione, ma la tensione resta. Le riforme promesse non sono ancora visibili nella vita quotidiana, e molti vedono in questo un déjà-vu: l’ennesima promessa che evapora nel caldo africano. Intanto, le manifestazioni continuano a ogni fine settimana, spesso sotto lo sguardo discreto ma costante delle forze dell’ordine.
Nelle zone più povere del Paese, dove le infrastrutture mancano e gli ospedali sono lontani, la protesta assume toni ancora più drammatici. In villaggi dell’interno come Tiznit e Taroudant, i giovani organizzano assemblee improvvisate, leggono i nomi delle vittime, accendono candele per i morti di Agadir. È lì che si misura la profondità di questa rivolta: non solo nelle città costiere, ma anche nei paesi dimenticati, tra montagne e oasi dove la modernità è arrivata solo a metà.
La stampa internazionale osserva con attenzione. Le Monde, The Guardian, Reuters, France 24: tutti titolano su “una nuova primavera marocchina”. Ma il paragone con la Primavera Araba del 2011 è solo parziale. Quella era una rivolta per la libertà; questa è una rivolta per la dignità. Non contro un dittatore, ma contro un sistema che promette sviluppo senza giustizia. La differenza è sottile ma decisiva.
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Nel suo discorso più recente, Mohammed VI ha parlato di “un Paese che cresce con le sue giovani energie”, ma i ragazzi di GenZ 212 gli rispondono dai social: “Siamo noi l’energia, ma ci state scaricando”. Non vogliono abbattere la monarchia, ma chiedono che il Re sia davvero il garante di quella giustizia sociale di cui parla. Il sovrano, a sua volta, cerca equilibrio: non vuole schierarsi contro il governo, ma nemmeno apparire sordo ai giovani. È una partita sottile, e tutta da giocare.
Il futuro resta incerto. Se le promesse del governo resteranno lettera morta, la protesta potrebbe radicalizzarsi, o disperdersi nel disincanto. Se invece dalle parole nasceranno azioni concrete — scuole ristrutturate, ospedali riaperti, piani di lavoro giovanile — il Marocco potrebbe uscire da questa crisi più forte, più moderno, più giusto. In ogni caso, qualcosa si è già rotto: il silenzio.
Nelle notti di Rabat, i ragazzi si incontrano ancora nei caffè, discutono, scrivono sui muri, accendono i telefoni e riprendono tutto. “Questa volta non ci fermeremo”, dice Yasmine, 22 anni, studentessa di economia. “Non stiamo chiedendo miracoli, ma il diritto di avere un futuro qui, a casa nostra”. Accanto a lei, un ragazzo con una bandiera del Marocco disegnata sulla giacca aggiunge: “Non odiamo il nostro Paese. È perché lo amiamo che protestiamo”.
E forse è proprio qui che si nasconde il significato più profondo della rivolta della Generazione Z marocchina: un atto d’amore, non di distruzione. Una richiesta di giustizia fatta da chi non vuole emigrare, ma restare. Da chi non vuole una rivoluzione, ma una vita normale. Da chi non ha paura di gridare al mondo che il futuro, adesso, non può più aspettare.
Negli ultimi vent’anni il Marocco è cambiato in modo profondo e contraddittorio, sospeso tra modernità e disuguaglianza, tra grattacieli e villaggi dimenticati, tra l’immagine di una nazione in crescita e le ferite di chi da quella crescita è rimasto fuori. Dal 1999, con l’ascesa al trono di Mohammed VI, il Paese ha intrapreso una trasformazione ambiziosa, decisa a proiettarsi nel mondo come simbolo di stabilità, sviluppo e modernità nel Nord Africa. E in parte, ci è riuscito: le grandi infrastrutture, le zone industriali, i porti ultramoderni e le autostrade sono diventati il volto ufficiale del “nuovo Marocco”. Ma dietro quella facciata si muove un’altra realtà, fatta di giovani senza lavoro, di scuole precarie, di ospedali che non reggono, di quartieri periferici che non hanno visto lo stesso progresso. È in questa frattura che si è sviluppata la protesta della generazione Z, il grido più netto di un Paese che chiede di essere non solo moderno, ma anche giusto.
La crescita economica, in termini assoluti, è stata notevole. Il Marocco ha saputo attrarre investimenti esteri, grazie anche a una politica economica stabile e a un sistema fiscale competitivo. Settori come l’automotive, l’aerospaziale, l’elettronica e l’energia rinnovabile sono cresciuti fino a rappresentare una fetta importante del PIL. Il porto di Tanger Med, oggi uno dei più grandi hub logistici del Mediterraneo, è il simbolo di questa ambizione industriale e commerciale. L’economia marocchina è diventata più diversificata e meno dipendente dall’agricoltura, che tuttavia continua a impiegare un terzo della popolazione attiva e rimane vulnerabile alla siccità cronica che negli ultimi anni ha devastato intere regioni. Il turismo, anch’esso potenziato, ha trasformato città come Marrakech, Essaouira e Fez in mete internazionali. Ma questa modernizzazione, pur reale, non è stata equamente distribuita. Le ricchezze si sono concentrate lungo la costa atlantica e nelle grandi città, lasciando le aree interne, montane e rurali in una condizione di marginalità economica e sociale.
Nel frattempo, la società marocchina è cambiata a ritmi rapidissimi. L’urbanizzazione è esplosa, con milioni di persone che si sono spostate dalle campagne verso le città in cerca di opportunità. Quartieri nuovi sono sorti in periferia, spesso privi di servizi adeguati. La popolazione urbana è oggi la maggioranza, e il volto delle città racconta la contraddizione di un Paese in bilico: da una parte i centri commerciali e le torri finanziarie come quella di Casablanca, dall’altra le bidonville e le aree popolari dove l’acqua scarseggia e i trasporti pubblici sono un lusso. Nonostante gli sforzi del governo, la disoccupazione giovanile resta elevata: oltre un terzo dei giovani tra i 15 e i 24 anni non trova lavoro. E anche chi lavora spesso lo fa in nero, in un’economia informale che sfugge alle statistiche e alla protezione sociale.
La politica, pur avendo conosciuto qualche apertura, è rimasta sostanzialmente verticale. La Costituzione del 2011, varata all’indomani della Primavera Araba, aveva promesso più poteri al Parlamento, più libertà di espressione e maggiore partecipazione dei cittadini. Ma nella pratica, la monarchia conserva ancora il baricentro del potere. Il Re Mohammed VI ha mantenuto un ruolo decisivo in ogni ambito — economico, religioso, diplomatico — incarnando al tempo stesso il volto riformista del Paese e il suo limite più evidente: quello di una modernità controllata dall’alto. La figura del monarca è rispettata e, in molti casi, amata, ma il rapporto tra istituzioni e cittadini si è fatto più fragile. Le nuove generazioni, nate dopo il 2000, cresciute con Internet e abituate a confrontarsi con il mondo, non si accontentano più di riforme simboliche. Chiedono trasparenza, efficienza, diritti concreti.
Nonostante i progressi sociali, come l’estensione della copertura sanitaria o l’aumento del tasso di alfabetizzazione, il sistema educativo marocchino resta diseguale. Le scuole delle aree rurali sono spesso fatiscenti, la qualità dell’insegnamento varia enormemente, e le università non sempre offrono percorsi in linea con il mercato del lavoro. Anche la sanità, uno dei temi centrali delle proteste del 2025, è un mosaico di eccellenze e abbandono: ospedali moderni nelle grandi città, strutture carenti nelle province interne. Le disuguaglianze si misurano in chilometri, ma anche in aspettative di vita. La povertà estrema è diminuita rispetto agli anni Duemila, ma il divario tra ricchi e poveri si è ampliato. E il malessere diffuso non riguarda solo le classi sociali più basse, ma anche i giovani laureati, le donne, i piccoli imprenditori schiacciati da un sistema burocratico rigido e da una percezione diffusa di corruzione.
In questi vent’anni, il Marocco ha voluto mostrarsi al mondo come un Paese moderno, stabile, progressista. Ha firmato accordi commerciali con l’Unione Europea e con gli Stati Uniti, ha investito nelle energie rinnovabili, ha ospitato vertici internazionali e lanciato programmi ambiziosi come “Maroc Vert” per l’agricoltura sostenibile e “Noor Ouarzazate”, il più grande impianto solare del continente. Ma dietro l’immagine verde e industriale si nasconde la fragilità di un tessuto sociale che non tiene il passo. L’accesso all’acqua è diventato un problema nazionale, la desertificazione avanza, e le ondate di caldo rendono insostenibile la vita in molte aree rurali. L’urbanizzazione incontrollata, la pressione sul lavoro e il costo crescente della vita spingono sempre più giovani a sognare l’emigrazione verso l’Europa.
Negli ultimi anni, il linguaggio del cambiamento si è spostato dal governo alla piazza. Se negli anni Duemila la modernizzazione era una promessa collettiva, oggi è diventata un diritto rivendicato. Le proteste della generazione Zdel 2025 non sono un fulmine a ciel sereno, ma il risultato di due decenni di squilibri accumulati. Una generazione che non ha conosciuto la paura, ma solo la frustrazione. Che vive in un Paese dove la connessione a Internet è più diffusa dell’acqua potabile in alcuni villaggi. Che ha visto crescere grattacieli e aeroporti, ma non opportunità di vita. Il Marocco di oggi è giovane, digitale, globalizzato, ma ancora intrappolato in meccanismi antichi. È un Paese che guarda al futuro con coraggio e insieme con rabbia, dove il progresso corre più veloce dell’inclusione, e dove la vera battaglia non è più solo per la crescita, ma per la giustizia.
In vent’anni, il Marocco è diventato una potenza regionale, ma anche un laboratorio di contraddizioni. Ha mostrato al mondo come si possa conciliare la monarchia con la modernità, l’Islam con il mercato, l’Africa con l’Europa. Ma oggi, sotto le insegne del progresso, il Paese si trova di fronte a un bivio. La scelta non è solo economica, è generazionale. O si investe finalmente nelle persone, o la frattura tra chi vive nel nuovo Marocco e chi ne resta escluso rischia di diventare irreparabile. La generazione Z, con la sua rabbia e la sua speranza, lo ha già capito: non basta costruire strade, se non portano da nessuna parte.
In Marocco, oggi, molti lo pensano. E non sono solo i nostalgici o i vecchi contadini che ricordano “il tempo di Hassan II”. A dirlo, spesso, sono proprio i giovani — quelli della generazione Z che, pur essendo nati in un Paese più moderno, più connesso, più globale, sentono di vivere peggio dei loro genitori. Certo, si stava “peggio” quando le strade erano poche, le scuole rare e la povertà diffusa. Ma oggi, tra disoccupazione, disuguaglianze e promesse non mantenute, cresce l’idea che si stesse meglio quando si stava peggio almeno per una ragione: allora, la speranza esisteva.
Negli anni Duemila, con l’ascesa di Mohammed VI, il Marocco respirava entusiasmo. Si parlava di riforme, di diritti, di apertura. C’era la sensazione che il Paese stesse davvero cambiando. Oggi, dopo vent’anni di grandi infrastrutture, di cantieri faraonici, di conferenze internazionali, quel sogno si è appannato. Le nuove generazioni vedono autostrade e treni ad alta velocità, ma non vedono ospedali che funzionano. Vedono grattacieli e zone industriali, ma non trovano lavoro. Vedono ministri che parlano di progresso, ma non sentono che la loro vita migliori davvero. E allora sì, la frase “si stava meglio quando si stava peggio” diventa una provocazione amara, ma efficace: il simbolo di un Paese che ha smarrito il senso del proprio sviluppo.
Molti marocchini dicono che “prima” almeno c’era meno disillusione. Che si viveva con meno, ma si credeva nel futuro. Oggi, invece, il progresso sembra qualcosa che accade altrove: nei centri commerciali, nei resort turistici, nelle zone franche, ma non nelle case, non nei quartieri popolari, non nei villaggi dell’interno. “Meglio poveri ma uniti che moderni e soli”, scrivono alcuni sui social, riassumendo quel malessere collettivo che nessuna statistica riesce a catturare.
In fondo, la frase “si stava meglio quando si stava peggio” non è nostalgia, è denuncia. È il modo con cui i marocchini — e in particolare i giovani — esprimono una verità dura: che lo sviluppo senza giustizia è solo una vetrina. E che non basta crescere, se la crescita non tocca chi vive in basso. È un detto antico, ma oggi suona come una domanda politica: a cosa serve un Paese moderno, se la sua gente non riesce più a sperare?
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