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Ombre su Torino
01 Novembre 2025 - 19:17
In fuga.
Dalla propria famiglia, dalle proprie responsabilità, dai propri peccati. Da sé stesso. Senza una meta precisa, ha camminato in giro per Torino finché il gelo e le tenebre lo hanno assalito e solo a quel punto, si è diretto al cantiere dove lavora ogni giorno come manovale.
Qui ha provato a forzare la porta di ferro di una casa in costruzione ma, dopo un’ora di tentativi infruttuosi, si è arreso. Si è addormentato per terra, raggomitolato, la testa sotto il soprabito. È l’inverno del 1956 e, non più di due settimane dopo, la colonnina di mercurio scenderà a un siberiano meno 22. Non è una metafora: si muore di freddo.
A strapparlo dall’assideramento, intorno alle 7,30 del giorno dopo, arriva un viso amico che lo chiama per nome e gli dice di seguirlo in una vicina trattoria. È il suo capocantiere, il geometra Sempio. I due si siedono e il geometra gli offre un cognac per scaldarsi. L’uomo lo beve, si appoggia allo schienale e chiude gli occhi. Non può più scappare. Il geometra chiama la celere e poi si rivolge al latitante: “Lo sai che stavolta l’hai ammazzata?” gli dice.
Questa storia inizia come tante, troppe altre volte, nello stesso periodo, è già successo prima.
Agosto 1951, da qualche parte in campagna a Cerignola, vicino Foggia. Gli sguardi di Caterina e Giuseppe si incrociano e, per un attimo, il tempo, invece di fermarsi come vorrebbe la banalità dell’amore, si mette a correre vorticosamente. Passa appena una settimana e la coppia sparisce dal paese, rifugiandosi da un fratello di lui.
Qui, per utilizzare l’ipocrita linguaggio d’allora, Giuseppe “compromette” la diciannovenne Caterina e, a seguito dell’intervento dei genitori dei due, viene deciso che devono sposarsi in ottobre. Litigano il giorno dopo le nozze. Tempo un mese e la ragazza denuncia il marito per lesioni.
Questi, anche perché “tanto laggiù non sapeva che fare”, fa le valigie e si trasferisce a Torino. All’ombra della Mole trova e perde lavoro con sorprendente facilità, finché non viene assunto dal comune nel cantiere nel quale viene costruito l’argine della sponda sinistra della Stura, vicino piazza Sofia. Compenso 700 lire al giorno e il pranzo in trattoria.
Sono passati due anni da quando è andato via dalla Puglia e, essendosi apparentemente sistemato, decide di tornare nei suoi luoghi d’origine e di riprendersi la moglie. Le narra della grande città, di un posto dove tutti hanno il loro spazio e un impiego, dove la povertà è un ricordo, dove tutto è possibile.
La convince, salgono insieme su un treno e sembra che le loro divergenze si siano, come per magia, appianate. Ma dura poco. Una volta giunti a Torino, Giuseppe porta Caterina ad abitare in una pensione in corso Raffaello 2. Per ora è questo che si può permettere, poi si vedrà.
La giovane prova ad adattarsi ma l’idea di vivere a lungo in una stanzetta senza bagno, condividendo la vita con sconosciuti vicini di casa che cambiano ogni settimana, la spinge a fare il viaggio a ritroso e a tornare a Cerignola.
Gennaio 1955.
Giuseppe, che è rimasto da solo a Torino, scrive una serie di lettere a Caterina. Le racconta che ha trovato un’occupazione stabile e che, finalmente, possono andare ad abitare in una casa tutta loro. La ragazza ci casca di nuovo.
L’alloggio che ha reperito l’uomo si trova in via Fossata 6. È ricavato in un fabbricato che fino alla fine dell’800 era una cascina, i cavalli al piano terra e il fienile di sopra. Sparite bestie e grano, al loro posto sono state costruite 19 stanze, in cui vivono 19 famiglie diverse, 45 persone in tutto. Un gabinetto e un rubinetto per piano.

A Giuseppe e Caterina è toccata una camera lunga 2,70 m, larga 2,30 e alta 2,20, con una piccola finestra e un soffitto di legno a travi sconnesse. Al suo interno, un letto che occupa praticamente tutto lo spazio disponibile, un minuscolo tavolo col fornello del gas e il guardaroba diviso in due, un pezzo in un angolo e l’altro ai piedi del letto. Su quest’ultimo si deve dormire di notte e mangiare di giorno, appoggiandosi a un pezzo di legno.
Definire tale situazione problematica è dire poco. Alle ristrettezze “spaziali” si accompagnano, sembra quasi scontato dirlo, quelle economiche. Giuseppe guadagna 700 lire al giorno ma, a parte pagare 2000 lire d’affitto e poco altro, non contribuisce per nulla né al ménage familiare né alle esigenze della moglie che lavora saltuariamente come colf. Trova però il modo di acquistare una moto, nonostante, spesso e volentieri, Caterina, anche solo per portare qualcosa a tavola, sia costretta a fare l’elemosina dai vicini.
Questo terrificante intreccio viene reso ancora più gravoso dal fatto che l’uomo è anche particolarmente manesco. Se i dirimpettai, dopo qualche mese, iniziano a non fare più caso ad urla e rumori molesti provenire dal loro monolocale, così non si può dire della polizia che, suo malgrado, deve spesso intervenire a calmare gli animi: in un anno si presentano alla loro porta per 10 volte.
Il 1956, tuttavia, sembra nascere sotto tutt’altri auspici. Proprio il primo gennaio, infatti, nasce il primogenito della coppia, Franco. Caterina crede che aver dato un erede al marito lo possa calmare, che possa essere da stimolo per cambiare vita. Un’illusione che dura 28 giorni.
29 gennaio 1956, ore 11,45.
I vicini di casa che sentono una serie di colpi secchi in serie, pensano che Giuseppe stia spaccando della legna. Solo un meccanico susseguirsi di tonfi sordi, senza un urlo, senza nessun altro rumore. Poi la porta che si apre e si chiude. Quando varcano l’uscio del loculo della coppia, vista la superficie, non possono che notare immediatamente cosa sia avvenuto.
A terra c’è Caterina, Caterina Jovino, 24 anni, in un lago di sangue e col proprio figlioletto schiacciato tra lei e il pavimento. Giuseppe l’ha colpita furiosamente per 22 volte con un asse di legno per lavare. La ragazza, che probabilmente in quel momento stava allattando il piccolo Franco, è caduta a terra senza neanche fiatare. Muore in ospedale intorno alle 13 e solo l’intervento tempestivo dei sanitari salva la vita al neonato.
Quando arrestano Giuseppe Amato le sue reazioni sono incredibili. Alterna pianti disperati a frasi totalmente senza senso, tentativi di giustificarsi a improvvise minacce di farsi del male. Chiede per decine di volte ai poliziotti che lo arrestano se la moglie fosse morta per davvero, poi si preoccupa per i parenti di Caterina (“E’ bene che lo sappiano in Puglia, avranno piacere di seguire il funerale”) e poi si preoccupa che, in qualche maniera, avrebbe dovuto riscuotere un arretrato di 3600 euro che aveva col Comune.
Prima dice che l’ha uccisa reagendo a una sua precedente aggressione, poi che andavano d’amore e d’accordo e che non aveva ragioni per odiarla, infine che era esasperato perché “la miseria, l'incertezza nell'avvenire mi rendevano esasperato. Ho colpito mia moglie durante una crisi, ero schiavo di una situazione senza vie d'uscita e mi sfogavo picchiandola”. Così, serenamente, come se fosse una cosa perfettamente normale.
Concesse le attenuanti generiche, il 6 novembre 1957, Giuseppe Amato viene condannato a 20 anni.
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