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01 Novembre 2025 - 10:25
Gli Stati Uniti puntano i missili su Maduro
All’alba, poco prima che il sole spezzi l’orizzonte sul Mar dei Caraibi, la sagoma della portaerei USS Gerald R. Ford si staglia oltre la linea d’acqua. È la nave ammiraglia della Marina americana, il più grande ponte di volo mai costruito — e non dovrebbe essere lì. Eppure c’è.
Da giorni incrocia al largo, al centro di un dispositivo che comprende cacciatorpediniere, unità anfibie e velivoli da sorveglianza elettronica. A bordo, secondo il Naval Sea Systems Command, oltre 4.300 marinai; nelle acque circostanti operano reparti dei Marines dislocati per “operazioni di deterrenza e sicurezza marittima”.
Un messaggio inequivocabile: Washington mostra i muscoli davanti al Venezuela.
Secondo il Wall Street Journal e il Miami Herald, il Pentagono starebbe valutando attacchi mirati contro siti militari venezuelani sospettati di supportare i cartelli della droga. Il presidente Donald Trump, però, ha smentito: «Nessun piano di attacco è sul tavolo», ha dichiarato il 31 ottobre in conferenza stampa. Ma la flotta resta. E quando un gruppo da battaglia nucleare resta in posizione, vuol dire che le opzioni operative sono pronte.
Tra settembre e ottobre, la U.S. Southern Command ha confermato diversi strike di precisione contro imbarcazioni sospette — i cosiddetti go-fast boats — cariche di cocaina e fentanyl. Washington ha incorniciato l’operazione come parte di una guerra non convenzionale contro organizzazioni criminali transnazionali, definendo i membri dei cartelli «combattenti illegali» (definizione comparsa in un policy brief del Dipartimento della Difesa del 20 settembre).
Ma il linguaggio, che ricorda Guantánamo e l’era Bush, ha allarmato giuristi e parte del Congresso: senza una risoluzione specifica, l’uso della forza oltre confine rischia di violare la War Powers Resolution del 1973 e i principi del diritto internazionale umanitario.
Caracas respinge ogni accusa e parla apertamente di “costruzione di un casus belli”. Nicolás Maduro denuncia un «tentativo imperialista di destabilizzare il Venezuela», citando la disputa con la Guyana sull’Essequibo come pretesto occidentale per “militarizzare” la regione.
In molti, in America Latina, sospettano che la “guerra alla droga” sia anche un cappello politico per indebolire un regime ormai isolato ma ancora radicato.

Maduro
Secondo fonti di intelligence latinoamericane, le “infrastrutture a doppio uso” finite nel mirino sarebbero piste interne e terminal portuali nella fascia orientale e llanera, strutture civili con presenza militare o sospette di fungere da nodi logistici per il narcotraffico.
L’idea operativa – se mai autorizzata – prevedrebbe strike notturni e limitati per colpire questi snodi e inviare un messaggio deterrente alla catena di comando.
Il profilo tecnico privilegerebbe missili Tomahawk lanciati da cacciatorpediniere e sottomarini, oppure bombe a guida laser sganciate da F-35 e F/A-18 Super Hornet della Gerald R. Ford.
Ma la superportaerei non serve solo per colpire: è anche messaggio politico in acciaio. Il suo compito principale è ricordare a Caracas che gli Stati Uniti possono intervenire “quando e se vogliono”.
Gli analisti del Center for Strategic and International Studies (CSIS) parlano di “deterrenza muscolare”, non di guerra imminente. Il Pentagono, spiegano, tiene “l’opzione di strike” come carta negoziale e di pressione, soprattutto per misurare la reazione di Mosca e Pechino, che negli ultimi anni hanno aumentato il sostegno a Maduro con forniture di droni, radar e petrolio raffinato.
Nel frattempo, Caracas risponde con esercitazioni di difesa aerea e costiera trasmesse in diretta nazionale: intercettori Sukhoi, batterie SAM, l’enfasi patriottica che trasforma la minaccia in propaganda. «Non ci piegheremo», proclama Maduro, ma anche lui sa che il divario tecnologico è abissale.
Se Washington decidesse di colpire, il Venezuela potrebbe solo incassare il primo round e tentare di disperdere i suoi asset sensibili.
In Europa, l’atteggiamento è di cauta distanza: nessun governo parla di “autorizzazione morale” a operazioni preventive.
In America Latina prevale il sospetto, alimentato dai precedenti in Iraq e Panama: nessuno difende Maduro, ma nessuno vuole una nuova guerra a stelle e strisce nel cortile di casa.
La smentita di Trump funziona come ambiguità strategica: negare un piano serve a evitare pressioni interne e a mantenere margini di azione.
Ma finché la USS Gerald R. Ford resterà in zona, la minaccia rimane concreta.
E mentre la sagoma scura della portaerei si staglia ogni mattina sull’orizzonte, la sua ombra si allunga sulle cancellerie di mezzo continente. Il messaggio resta lo stesso: la potenza americana non parla, si mostra.
Una robusta presenza navale USA nel sud dei Caraibi, con la USS Gerald R. Ford, cacciatorpediniere classe Arleigh Burke, un gruppo anfibio con Marines imbarcati e assetti da sorveglianza ISR. Il dispositivo, secondo fonti aperte, supera le forze usualmente assegnate alla regione.
Dall’inizio di settembre sono state condotte operazioni letali contro imbarcazioni sospette di traffico di droga nel Caribe e nel Pacifico orientale. La narrativa ufficiale parla di “narco-terroristi” e di una campagna per “spezzare le reti”che alimentano i flussi verso gli USA.
WSJ e Miami Herald riferiscono che Washington avrebbe identificato obiettivi a terra in Venezuela – piste, porti, magazzini, nodi logistici – dove si incrocerebbero interessi delle forze armate venezuelane e dei cartelli Cartel de los Soles e Tren de Aragua.
Trump ha smentito l’intenzione di un’offensiva imminente, lasciando però aperta la porta a “scelte rapide, se necessario”.
Costo e scala: un’operazione anfibia richiederebbe più gruppi d’attacco, copertura SEAD contro le difese S-300, logistica su più scali regionali.
Rischi militari: la Forza Aerea Venezuelana dispone di Su-30MK2 con missili antinave Kh-31 e rete antiaerea integrata (S-300VM, Buk-M2E, Pechora-2M). Non bastano a vincere, ma possono alzare il prezzo.
Finestra politica e legale: senza un mandato ONU o un casus foederis, il consenso interno e regionale a un’invasione è fragile.
Conclusione: senza un evento dirompente, la traiettoria più logica resta quella degli attacchi limitati e ripetibili, per dosare l’escalation e mantenere l’ambiguità strategica..
L’articolo 2(4) della Carta ONU vieta l’uso della forza salvo autodifesa o mandato del Consiglio di Sicurezza. Equiparare i cartelli a un’aggressione armata di Stato è contestato.
In assenza di conflitto armato tra soggetti qualificati, uccisioni mirate all’estero possono configurarsi come privazioni arbitrarie della vita.
La dottrina dell’“unable or unwilling” — colpire sul territorio altrui se lo Stato è incapace di fermare una minaccia — resta controversa.
Per Washington, invece, i cartelli sarebbero “minaccia immediata alla sicurezza nazionale” e certi asset venezuelani (piste, radar, depositi) avrebbero copertura militare, aprendo alla difesa preventiva. È lì che si gioca la vera partita: tra la legge e la forza.
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