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Un rapporto segreto a Washington, un conto aperto a Gaza: cosa c’è dietro le “centinaia” di potenziali violazioni attribuite a unità israeliane

Un documento classificato del governo americano evoca l’ombra della Legge Leahy e di un processo di verifica destinato a durare anni. Tra dossier inevasi, forum interni e casi-simbolo, ecco come (e perché) la macchina statunitense dell’accountability potrebbe incepparsi

Un rapporto segreto a Washington, un conto aperto a Gaza: cosa c’è dietro le “centinaia” di potenziali violazioni attribuite a unità israeliane

Un rapporto segreto a Washington, un conto aperto a Gaza: cosa c’è dietro le “centinaia” di potenziali violazioni attribuite a unità israeliane

Un elenco lungo come una notte di bombardamenti: “centinaia” di segnalazioni, fascicoli aperti, episodi da ricostruire, video da geolocalizzare, intercettazioni da incrociare con le mappe delle unità operative. È la trama di un rapporto classificato elaborato da un organo di controllo del Dipartimento di Stato americano che, secondo fonti di Washington, stima un arretrato di possibili violazioni dei diritti umani commesse da unità delle Forze di Difesa israeliane durante l’operazione a Gaza. Un arretrato così ampio da richiedere «diversi anni» solo per essere vagliato, complice una procedura di revisione che, proprio sul dossier israeliano, è ritenuta particolarmente deferente. La notizia, trapelata nelle scorse ore nella capitale americana, mette al centro una legge quasi sconosciuta al grande pubblico ma cruciale negli equilibri fra Washington e gli alleati: la Legge Leahy, il meccanismo che, in caso di “gravi violazioni”, impone il blocco dell’assistenza a specifiche unità straniere.

Il cuore della novità sta in due elementi. Primo: il documento è frutto della vigilanza interna negli Stati Uniti, non di organismi internazionali o ong. Secondo: la scala. Non qualche caso “esemplare”, ma “molte centinaia” di episodi potenzialmente rilevanti per la Leahy — un linguaggio che, negli standard burocratici di Washington, ha un peso politico. Il rapporto, stando alle ricostruzioni, non decreta colpe né sanzioni immediate: indica però che la massa critica delle segnalazioni e la struttura del processo renderanno lentissima ogni determinazione formale. Tradotto: l’inerzia istituzionale rischia di diventare il vero esito politico.

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La Leahy Law (in realtà, due norme parallele che vincolano Dipartimento di Stato e Pentagono) stabilisce che gli Stati Uniti non possano fornire assistenza a «qualunque unità delle forze di sicurezza straniere» quando vi sia “informazione credibile” di gravi violazioni dei diritti umani; l’eccezione scatta solo se il governo interessato dimostra di punire efficacemente i responsabili. Non un embargo generale, dunque, ma un taglio mirato per unità. La norma — codificata nella sezione 22 U.S.C. § 2378d — obbliga inoltre a predisporre liste aggiornate, canali per ricevere denunce da fonti esterne e, quando le unità non siano identificabili prima della consegna degli aiuti, accordi scritti con il Paese partner per non destinare fondi a reparti inidonei. È un impianto concepito per coniugare realpolitik e accountability. Ma con Israele la macchina si fa più complessa e, spesso, più lenta.

Nel caso israeliano pesa un elemento di procedura: l’esistenza di uno “Israel Leahy Vetting Forum”, un tavolo interdipartimentale che, secondo inchieste giornalistiche e testimonianze di ex funzionari, funziona per consenso e include soggetti tradizionalmente favorevoli a preservare la cooperazione militare con Gerusalemme. Un meccanismo che, di fatto, alza l’asticella del provvedimento più temuto — la dichiarazione di “ineligible unit” e il taglio dell’assistenza — e sposta in avanti nel tempo qualunque decisione. Negli ultimi anni, diverse ricostruzioni hanno documentato come il Segretario di Stato abbia ricevuto raccomandazioni per sanzionare specifiche unità israeliane, senza però arrivare al passo formale. Il nuovo rapporto classificato non ribalta l’inerzia, ma ne certifica l’enorme arretrato.

Il conteggio delle “centinaia” non è pubblico caso per caso. Ma alcune categorie ricorrenti emergono dal quadro degli ultimi due anni: attacchi che hanno provocato elevate vittime civili, episodi legati alla protezione degli operatori umanitari, l’uso di munizionamento pesante in aree densamente popolate, operazioni di detenzione e trattamento dei prigionieri. Per la sola dimensione del danno civile, basti ricordare che, già nell’autunno 2024, il Dipartimento di Stato aveva dichiarato di seguire quasi 500 incidenti potenziali di “civilian harm” con possibile coinvolgimento di armi fornite dagli USA: una pipeline analitica che, in parte, confluisce oggi nel più ampio arretrato richiamato dal rapporto classificato.

Tra i casi-simbolo più noti fuori dalle carte riservate c’è il bombardamento del convoglio di World Central Kitchen, il 1-2 aprile 2024, costato la vita a sette operatori umanitari di diverse nazionalità, all’indomani di una missione alimentare coordinata con l’esercito israeliano. La reazione americana fu di aperta indignazione; furono promessi accertamenti e “accountability”, ma a oggi quel dossier non risulta aver prodotto misure Leahy su unità specifiche. L’episodio è rappresentativo di un nodo: la distanza tra la visibilità mediatica del danno e la soglia giuridicanecessaria a sanzionare un’unità.

Chi conosce i tempi della burocrazia federale sa che l’accertamento Leahy non è un processo penale ma una valutazione amministrativa: bisogna associare un fatto a una unità identificabile, stabilire se esista “informazione credibile”, verificare la risposta disciplinare del partner e, laddove le unità siano «non tracciabili» ex ante, garantire che i fondi non finiscano a reparti inidonei. Con Israele, l’ulteriore livello del “forum” e la natura classificata di molte prove (immagini aeree, segnali d’intelligence) dilatano i tempi; inoltre, parte delle operazioni sono avvenute in contesti in cui l’accesso al teatro di conflitto è stato estremamente limitato per osservatori indipendenti, complicando la corroborazione delle accuse. Non stupisce, dunque, che il rapporto parli di anni per lo smaltimento.

Precedenti e “linee rosse” sfiorate

Non è la prima volta che a Washington si discute dell’applicazione della Leahy a unità israeliane. Nell’aprile 2024, il Segretario di Stato Antony Blinken dichiarò di aver preso “determinazioni” su alcune accuse relative a reparti operativi — una rarefatta ammissione pubblica, a cui non seguì però un elenco di unità interdette. Nello stesso periodo, media e ong riferivano che unità con storia di abusi (tra cui il battaglione Netzah Yehuda) fossero sotto revisione; quattro reparti erano stati indicati come “rimediati” dal lato israeliano, mentre altri restavano nel limbo. La sostanza: una soglia raramente oltrepassata.

Un altro filone ha riguardato le detenzioni e i presunti abusi nei siti militari come Sde Teiman, con proposte interne — poi non firmate in tempo dal vertice — per tagliare l’assistenza a due unità collegate. Anche qui, l’attrito tra pressioni politiche, cessate il fuoco a rischio e architettura della Leahy ha prodotto, in ultima istanza, non-decisioni.

Sullo sfondo si muove la filiera delle forniture militari USA a Israele. Nel maggio 2024 l’Amministrazione Bidensospese un invio di bombe da 2.000 e 500 libbre in vista dell’operazione su Rafah; a luglio riprese la spedizione delle 500 libbre, mantenendo lo stop sulle 2.000 per l’alto rischio di danni collaterali in aree densamente abitate. È una dinamica separata dalla Leahy Law (che è “unit-specific”), ma politicamente parallela: segnala che, in assenza di determinate interdizioni, la leva americana passa per pause e riprese su categorie di armamenti. Il nuovo rapporto sul backlog Leahy non cambia questo quadro, ma lo incornicia: la lentezza delle verifiche su singole unità spinge la Casa Bianca a usare, quando necessario, strumenti più rapidi e discrezionali.

La cartina di tornasole: gli operatori umanitari

Le indagini sugli attacchi che hanno colpito operatori umanitari sono una cartina di tornasole della capacità del sistema Leahy. Nel caso World Central Kitchen, il riconoscimento di responsabilità da parte israeliana come “errore” e l’annuncio di provvedimenti disciplinari interni non equivalgono di per sé al requisito Leahy di “passi efficaci per portare i responsabili davanti alla giustizia”. Serve dimostrare che la catena di comando ha attivato sanzioni proporzionate e che l’unità coinvolta non continui a ricevere benefici USA. Dove si ferma l’analisi amministrativa e dove inizia la deferenza politica è esattamente il terreno su cui il rapporto classificato mette il dito.

Il contesto: violenza, tregue fragili e diritto internazionale

Il rapporto esce in un momento in cui la striscia di Gaza resta intrappolata tra tregue periodicamente incrinate e nuovi picchi di violenza: a fine ottobre 2025, nuovi raid israeliani hanno causato oltre 100 vittime in una sola giornata, il bilancio più grave dall’intesa del 10 ottobre 2025. Episodi di questo tipo alimentano l’afflusso di nuove segnalazioni nella pipeline Leahy, ma soprattutto spostano il baricentro del dibattito americano: è sostenibile continuare a fornirearmi senza un riscontro rapido e trasparente sull’uso?

Parallelamente, organismi delle Nazioni Unite e ong internazionali hanno pubblicato negli ultimi mesi analisi severissime sull’andamento della guerra a Gaza, anche con parole — “atti genocidari”, “complicità” — che a Washington sono oggetto di fortissima contestazione politica. Questi rapporti, pur non vincolanti per la Leahy Law, creano un ambiente probatorio e un contesto di pressione pubblica che un ufficio ispettivo americano non può ignorare quando valuta la credibilità delle fonti.

Il nodo giuridico: “informazione credibile” e rimedi

La Leahy è costruita su due parole-chiave: “informazione credibile” e “rimedi efficaci”. La prima non richiede lo standard penale del “oltre ogni ragionevole dubbio”, ma neppure si accontenta di asserzioni senza riscontri multipli. Contano coerenza interna del racconto, convergenza di fonti indipendenti, tracciabilità dell’unità coinvolta. La seconda impone che lo Stato partner dimostri punizioni proporzionate, non meri richiami. Nelle vicende che coinvolgono Israele, questo secondo pilastro è stato spesso il collo di bottiglia: retrocessioni o brevi periodi di detenzione per singoli non sempre bastano a superare la sbarra. Non a caso, ex funzionari hanno parlato apertamente di “trattamento speciale” nel caso israeliano, incompatibile con lo spirito della norma.

Un’ultima, scomoda verità

La Leahy Law è stata pensata per casi chirurgici: colpire l’unità responsabile senza affossare l’alleanza. A Gaza, però, la scala del conflitto e la densità urbana hanno moltiplicato gli episodi in cui distinguere, con precisione amministrativa, reparti, catene di comando, responsabilità individuali e collettive è estremamente difficile. In assenza di un processo trasparente e rapido, il rischio è che la Legge Leahy — nata come antidoto all’impunità — venga percepita come un paravento tecnico. Il rapporto classificato, nel suo linguaggio misurato, mette tutti davanti a un bivio: o si investe sul serio nella capacità investigativa necessaria a chiudere quei dossier, oppure la promessa di accountability resterà inchiodata a un tempo verbale futuro.

Se accadrà la prima opzione, assisteremo — per la prima volta — a interdizioni mirate su unità israeliane connesse a episodi specifici; se prevarrà la seconda, l’inerzia sarà una scelta politica mascherata da complessità procedurale. E per le vittime — a Gaza come altrove — la differenza non sarà semantica, ma concreta.

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