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Esteri
31 Ottobre 2025 - 19:42
Donald Trump
Era ancora notte su Seul quando il mondo ha trattenuto il fiato. I telefoni dei diplomatici e dei militari hanno cominciato a vibrare quasi all’unisono: sullo schermo, un messaggio dal profilo ufficiale di Donald Trump. “Ho ordinato di ricominciare a testare le nostre armi nucleari”.
Una frase breve, quasi anodina, ma sufficiente a risvegliare i fantasmi del secolo scorso. Negli uffici del Pentagono, a Bruxelles, a Tokyo, si sono immediatamente riaccesi i canali di emergenza. Il linguaggio usato dal presidente americano era ambiguo: “ricominciare” cosa, esattamente? Si trattava di collaudi dei vettori, cioè missili, bombardieri, sottomarini? O di veri test esplosivi, di nuovo nel deserto del Nevada, dopo trent’anni di silenzio atomico?
Mentre a Washington si cercava di interpretare il tweet, a migliaia di chilometri di distanza, da Mosca, arrivava un secondo segnale. Vladimir Putin, in tuta mimetica, appariva in diretta televisiva per assistere a un rapporto dello Stato Maggiore. I generali annunciavano il successo del missile da crociera a propulsione nucleare Burevestnik – “l’uccello delle tempeste” – e del drone sottomarino Poseidon, alimentato da un mini-reattore atomico. Due armi tanto avveniristiche quanto misteriose. Il Burevestnik avrebbe volato per quindici ore coprendo 14mila chilometri, mentre il Poseidon avrebbe completato una missione subacquea “senza precedenti”.

Putin
In poche ore, due capitali hanno lanciato due messaggi diversi, ma un unico segnale: la soglia del tabù nucleare, quella linea invisibile che da decenni separava la deterrenza dalla follia, si sta di nuovo abbassando.
Il tempismo, ovviamente, non è casuale. Negli Stati Uniti, il ritorno di Trump alla Casa Bianca rappresenta un cambio di paradigma: meno multilaterale, più muscolare, con un’idea della forza come linguaggio della diplomazia. In Russia, Putin non ha più bisogno di mascherare le proprie ambizioni imperiali: la guerra in Ucraina è diventata il suo laboratorio di messaggi nucleari a cadenza regolare. Ogni minaccia, ogni esercitazione, ogni video con un missile lanciato o un reattore acceso serve a ricordare al mondo che Mosca è ancora in grado di terrorizzare.
Ma dietro gli annunci, si nascondono tre domande fondamentali. Primo: cosa significa esattamente “ricominciare a testare”? Dal 1992 gli Stati Uniti non compiono test esplosivi. L’ultimo fu Divider, nel deserto del Nevada, il 23 settembre di quell’anno. Da allora, una moratoria unilaterale e il CTBT – il Trattato per la messa al bando totale dei test nucleari – hanno retto, anche se mai entrati pienamente in vigore. Gli USA non lo hanno ratificato, la Russia sì… fino al 2023, quando ne ha ritirato la ratifica, pur promettendo di rispettarlo “finché lo faranno gli altri”.
Secondo: quanto sono vere le “armi miracolose” di Putin? Il Burevestnik, ribattezzato dalla NATO “Skyfall”, è in sviluppo da anni, con incidenti documentati, perdite radioattive e un numero imprecisato di fallimenti. Il Poseidon, a sua volta, è stato presentato come il “siluro dell’Apocalisse”, capace di creare un’onda radioattiva lungo le coste nemiche. Ma non esiste alcuna prova indipendente della loro effettiva operatività. Si tratta di una narrazione di potenza, costruita per intimidire, non per colpire.
Terzo: in che modo questi segnali impattano sulla guerra in Ucraina e sull’architettura di sicurezza globale? Dalla sospensione del trattato New START alla crisi di Zaporizhzhia, il più grande impianto nucleare d’Europa, ogni mossa russa avvicina il mondo a un’epoca di pericolosa incertezza. La minaccia atomica non serve più solo a dissuadere, ma a destabilizzare.
Per capire quanto sia grave la deriva attuale, bisogna ricordare da dove veniamo. L’ultimo test nucleare americano risale a oltre trent’anni fa. Da allora, gli Stati Uniti hanno investito in esperimenti “subcritici” e simulazioni digitali, per garantire la sicurezza del proprio arsenale senza detonazioni reali. Era il compromesso perfetto tra deterrenza e responsabilità.
Il CTBT, firmato nel 1996, non è mai entrato pienamente in vigore proprio per mancanza di ratifiche chiave: oltre agli USA, mancano la Cina, l’Iran, Israele, l’Egitto, mentre India, Pakistan e Corea del Nord non lo hanno nemmeno firmato. Di fatto, il divieto esiste solo come norma politica. Ma la politica, si sa, vive di equilibrio. E quell’equilibrio oggi vacilla.
Un ritorno ai test esplosivi, anche solo simbolico, sarebbe una scossa sismica per la stabilità mondiale. La CTBTO, l’organismo di monitoraggio, ha avvertito che un’esplosione nel Nevada verrebbe immediatamente rilevata dalla rete globale di sensori. Ma il danno sarebbe già fatto: non tanto radioattivo, quanto politico. Si aprirebbe una nuova corsa alla bomba, un effetto domino che coinvolgerebbe Cina, India, Pakistan, Corea del Nord, e forse anche Israele.
Sul piano tecnico, riportare in vita un test site americano richiederebbe anni di lavori e centinaia di milioni di dollari. Ma nell’era dei social, non serve davvero far esplodere nulla: basta dirlo. Il potere dell’annuncio ha sostituito quello del detonatore. Trump lo sa, e ne fa uso come strumento negoziale, un messaggio a Mosca e Pechino: “se voi lo fate, lo faremo anche noi”.
Dall’altra parte, Putin risponde con la regia teatrale che lo contraddistingue. Mostra missili, reattori, sottomarini. Ma il suo vero obiettivo è psicologico: spaventare l’Europa, minare la coesione della NATO, suggerire che nessuno è davvero al sicuro. È lo stesso copione recitato fin dall’inizio della guerra in Ucraina, quando la Russia minacciava di schierare armi tattiche in Bielorussia. E come ogni teatro, non importa se gli effetti speciali siano reali o digitali: ciò che conta è la reazione del pubblico.
Intanto, la Cina osserva e costruisce. Con circa seicento testate già pronte e centinaia di silos in costruzione, Pechino è la potenza nucleare in crescita più rapida. Gli analisti stimano che entro il 2030 potrebbe eguagliare il numero di missili intercontinentali americani. Nel frattempo, l’India e il Pakistan continuano i propri programmi, Israele mantiene la sua ambiguità storica, e la Corea del Nord, con ogni lancio, ricorda che il regime di Kim Jong-un è disposto a tutto per restare in gioco.
Il pianeta è tornato a respirare un’aria che credevamo appartenere agli archivi della Guerra Fredda. Ma oggi non c’è più l’equilibrio del terrore; c’è un disordine del terrore. Troppi attori, troppe ambiguità, troppa comunicazione incontrollata. E in questo caos, il rischio non è la decisione consapevole di lanciare una bomba, ma l’incidente, la provocazione mal interpretata, la risposta automatica.
Trump e Putin, in fondo, fanno lo stesso gioco: cinema strategico. Uno con i tweet, l’altro con le parate militari. Entrambi parlano a un pubblico globale sempre più spaventato e disorientato. Ma in questa nuova era di messaggi atomici, ciò che spaventa davvero non è la bomba, ma la leggerezza con cui se ne parla.
L’ordine nucleare costruito dal 1992 in poi si reggeva su un equilibrio fragile di responsabilità, tabù e rispetto reciproco. Oggi quell’equilibrio è in frantumi. Ed è forse questo il dato più allarmante: non siamo ancora tornati all’incubo degli anni Cinquanta, ma abbiamo smesso di crederlo impossibile.
La differenza tra deterrenza e distruzione non è più una linea invalicabile: è una sfumatura. E a volte basta un tweet, una parola mal dosata, un video propagandistico per oltrepassarla.
Il futuro dell’umanità, ancora una volta, si gioca su una soglia invisibile. E su due uomini che sembrano divertirsi a ballarci sopra.
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