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31 Ottobre 2025 - 19:43
Il Ministro Nordio
È l’ora della campanella, a Palazzo Madama. Le mani alzate, un lampo sul tabellone: 112 luci verdi, 59 rosse, 9 gialle. Era poco dopo il pomeriggio del 30 ottobre 2025 quando il Senato ha approvato in quarta lettura la riforma costituzionale della giustizia. Applausi dai banchi della maggioranza, cartelli alzati dall’opposizione: “No ai pieni poteri”. Nel mezzo, una certezza aritmetica che diventa immediatamente politica: non essendosi raggiunta la maggioranza qualificata dei due terzi, la legge potrà essere sottoposta a referendum confermativo. In altre parole, la partita si sposta fuori dal Parlamento e arriva agli elettori.
Con il voto di Palazzo Madama si chiude l’iter parlamentare della riforma voluta dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal ministro della Giustizia Carlo Nordio: un percorso iniziato alla Camera a inizio anno e proseguito con passaggi ravvicinati tra le due Camere, fino al via libera finale. La riforma interviene su un tema che attraversa la politica italiana da decenni: la separazione delle carriere tra magistratura requirente (i pubblici ministeri) e magistratura giudicante (i giudici). È uno snodo istituzionale che tocca l’assetto dell’autogoverno della magistratura, la disciplina dei magistrati e, per osmosi, il rapporto tra poteri dello Stato.
Secondo la ricostruzione delle forze di governo, l’obiettivo è garantire un giusto processo più equilibrato, preservare la terzietà del giudice e ridurre il peso delle correnti nella gestione delle carriere. Per le opposizioni e per ampie componenti della magistratura associata, invece, il rischio è di alterare l’equilibrio costituzionale, riducendo l’indipendenza del pubblico ministero e aprendo un fronte di potenziale compressione delle garanzie dei cittadini.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha salutato l’esito come un “traguardo storico” e un impegno mantenuto con gli italiani. Il ministro Carlo Nordio, che sulla riforma ha messo il proprio sigillo politico e biografico, ha parlato più volte di riforma “epocale” e ha auspicato una campagna referendaria di merito, non un plebiscito pro o contro il governo.
Sul fronte opposto, Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra hanno annunciato battaglia nel referendum. La segretaria Elly Schlein ha legato la riforma a un disegno di “sbilanciamento dei poteri”, mentre il leader pentastellato Giuseppe Conte ha evocato il rischio di una magistratura “con le unghie tagliate”. L’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) ha ribadito il suo “no”, denunciando un intervento che “altera l’assetto dei poteridisegnato dai costituenti”.
Nel mondo dell’avvocatura, invece, larga parte delle Camere penali guarda con favore alla separazione come strumento per rafforzare le garanzie del contraddittorio e la parità delle parti: da anni è una loro battaglia identitaria. Anche qui, però, non mancano le cautele: l’innovazione degli elenchi sorteggiati per i CSM e per l’Alta Corte viene osservata con attenzione, tra chi la considera un rimedio necessario e chi teme un eccesso di casualità nella selezione dei vertici dell’autogoverno.

Sul piano politico, il voto del 30 ottobre 2025 segna un successo della maggioranza guidata da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, che raccolgono una bandiera storica del centrodestra, dedicando il passaggio anche alla memoria di Silvio Berlusconi. La foto di giornata è però ambivalente: la riforma arriva al traguardo parlamentare, ma rimette il verdetto al Paese. E in Italia i referendum costituzionali hanno una storia che pesa: nel 2016 quello sulla riforma Renzi-Boschi fu respinto, con conseguenze politiche immediate. È uno scenario che tutti hanno in mente e che imporrà toni e contenuti della campagna.
Per il centrosinistra (in particolare PD, M5S, AVS) l’appuntamento può diventare terreno di ricomposizione e definizione di un fronte comune. Anche il Terzo polo e il mondo liberale-riformista saranno chiamati a scelte chiare, in parte già emerse nelle varie letture parlamentari con voti favorevoli, contrari o astensioni differenziate. Il referendum potrebbe dunque ridisegnare i rapporti di forza e il racconto pubblico sulla giustizia: tra la promessa di una giustizia “più equa e trasparente” e il timore di una “svolta centralizzatrice” che tocchi l’indipendenza della magistratura.
Numeri che chiudono il capitolo parlamentare ma aprono quello referendario: la Costituzione (articolo 138) prevede infatti che, in assenza dei due terzi in seconda deliberazione, la riforma possa essere affidata al giudizio popolare su richiesta di un quinto dei membri di una Camera, 500mila elettori, oppure cinque consigli regionali. Non è previsto quorum: vince chi ottiene la maggioranza dei voti validi. Le forze politiche hanno già preannunciato la raccolta firme; l’orizzonte temporale più verosimile, indicato da esponenti della maggioranza e accreditato dalle cronache parlamentari, è la primavera del 2026.
Il testo chiarisce che l’ordine giudiziario resta unico e autonomo, ma al suo interno si distinguono due carriere separate: giudicante e requirente. Il passaggio dall’una all’altra, oggi possibile in casi limitati, viene sostanzialmente precluso: si nasce pm o giudice e tale si rimane. È un cambio di paradigma, salutato dal centrodestra come necessario per sancire la separazione tra chi accusa e chi giudica e restituire al giudice una terzietà non solo sostanziale ma anche organizzativa.
L’attuale CSM viene scisso in due organi di autogoverno: uno per la magistratura giudicante, l’altro per la magistratura requirente. Entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica, includono come membri di diritto, rispettivamente, il Primo Presidente e il Procuratore generale della Corte di cassazione. La composizione degli altri membri introduce un elemento inedito e controverso: un sistema di sorteggio su elenchi distinti, per due terzi pescando tra i magistrati della relativa carriera e per un terzo tra avvocati e professori inseriti in un elenco formato dal Parlamento in seduta comune. I componenti restano in carica quattro anni e non sono rieleggibili nel sorteggio successivo. Per la maggioranza, il meccanismo è un antidoto al potere delle correnti; per i critici, rischia di indebolire la rappresentanza e la responsabilità dei togati.
La giurisdizione disciplinare sui magistrati non sarà più di competenza del CSM ma di una nuova Alta Corte. L’organo sarà composto da 15 membri, con una formula mista: alcuni nominati dal Quirinale, altri sorteggiati dagli elenchi parlamentari e altri ancora sorteggiati tra i magistrati con determinati requisiti. È prevista la possibilità di impugnare le decisioni della stessa Alta Corte in diversa composizione. Obiettivo dichiarato: separare in modo netto la funzione disciplinare dalla dinamica associativa interna alle toghe. Obiezione dei detrattori: si rischia un organo troppo permeabile ai rapporti con la politica, specie per la componente estratta da elenchi compilati dal Parlamento.
Il sistema si accompagna a un regime rigoroso di incompatibilità per i componenti degli organi di autogoverno e dell’Alta Corte, che non possono esercitare la professione di avvocato né ricoprire cariche politiche o di governodurante il mandato. Si punta così a ridurre conflitti di interessi e commistioni fra ruoli.
La Costituzione stabilisce la procedura: quando una riforma costituzionale non raggiunge i due terzi in seconda deliberazione in entrambe le Camere, entro tre mesi dalla sua pubblicazione può essere chiesto il referendum confermativo da uno dei soggetti legittimati: un quinto dei parlamentari di una Camera, 500mila elettori, oppure cinque consigli regionali. Non c’è quorum: la legge entra in vigore se la maggioranza dei voti validi è favorevole; in caso contrario, la riforma decade. La finestra temporale ipotizzata è la primavera 2026. In termini politici, sarà una campagna ad alta polarizzazione: il governo punta a presentare la riforma come “giustizia più equa e trasparente”; le opposizioni proveranno a trasformarla nel simbolo di un riequilibrio (a loro giudizio pericoloso) tra poteri.
Non è una riforma “a costo zero” sul piano organizzativo: serviranno regolamenti attuativi, riorganizzazione delle carriere, ridefinizione dei concorsi, nuove procedure per le nomine e per la disciplina. E servirà tempo: anche fonti governative hanno evocato un orizzonte di 7-8 anni per vedere la piena messa a regime del nuovo sistema.
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