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30 Ottobre 2025 - 18:06
Trump e Xi si stringono la mano (ma non firmano nulla): tregua finta, guerra vera
Il portellone dell’Air Force One si chiude lentamente, con quella solennità cinematografica che Donald Trump ha sempre saputo trasformare in politica spettacolo. Davanti ai cronisti, il magnate tornato alla Casa Bianca sorride e lancia la battuta perfetta: «È stato un incontro da 12 su 10». Sembra una scena scritta per i titoli dei telegiornali, ma dietro la frase ad effetto non c’è nessun trattato, nessuna firma, nessun documento con sigilli e parafi. Solo promesse, strette di mano e un equilibrio fragile, da tenere in piedi giorno per giorno.

A Busan, in Corea del Sud, Trump e Xi Jinping si sono ritrovati dopo mesi di gelo diplomatico e scambi di accuse. Hanno scelto un terreno neutro, un Paese alleato degli Stati Uniti ma con rapporti consolidati con Pechino. L’atmosfera era quella delle grandi occasioni, ma anche delle grandi diffidenze. Eppure, da quell’incontro lampo è uscito qualcosa che assomiglia a una tregua: riduzione dei dazi medi americani sui prodotti cinesi dal 57% al 47%, sospensione per un anno dei controlli cinesi sull’export delle terre rare e ripresa degli acquisti di soia americana. Tre mosse che non cambiano il mondo, ma lo rallentano un po’, scongiurando per ora una nuova escalation economica.
La sostanza è tutta qui: niente “accordo commerciale” formale, ma un pacchetto di impegni immediati, pratici, e soprattutto reversibili. La logica è quella del cessate il fuoco economico: si smette di sparare, ma le armi restano cariche. Washington taglia una parte della pressione tariffaria, Pechino mette in pausa un’arma molto più potente – i controlli sulle materie prime che servono a far funzionare la transizione verde e digitale – e in cambio riprende ad acquistare prodotti agricoli americani, indispensabili per la stabilità del consenso nelle campagne del Midwest. È un equilibrio precario, ma serve a entrambe le parti.
La riduzione dei dazi è il gesto politico più evidente: Trump potrà tornare a casa vantando una “vittoria negoziale” che allevia i costi per le imprese americane, colpite duramente da anni di tariffe punitive. Anche i dazi sul fentanyl, la sostanza al centro della crisi degli oppioidi negli Stati Uniti, vengono dimezzati, dal 20% al 10%. In cambio, Xipromette un maggiore impegno nel controllo dei precursori chimici utilizzati per la produzione del farmaco. Ma la vera partita si gioca altrove, in quel segmento di mercato che nessuno vede e che, tuttavia, tiene in piedi il mondo: le terre rare.
Sono loro, i magneti invisibili dell’economia globale. Il motore elettrico, la turbina eolica, lo smartphone, il missile: tutto passa da lì. La Cina estrae circa il 70% delle terre rare mondiali e raffina oltre il 90% dei metalli e degli ossidi utilizzati dalle industrie occidentali. Non è la miniera, ma la raffinazione, il vero collo di bottiglia. Quando Pechino, nei mesi scorsi, ha annunciato un giro di vite sulle esportazioni e nuove licenze obbligatorie per sette elementi strategici, tra cui il terbio e il disprosio, i mercati hanno reagito con allarme. Le fabbriche di mezzo mondo hanno cominciato ad accumulare scorte, temendo un blocco improvviso.
Ora, dopo la stretta di mano di Busan, arriva una sospensione “per almeno dodici mesi”. Non è un via libera totale, ma un segnale distensivo. Pechino lo presenta come un gesto di responsabilità per la stabilità delle filiere globali, ma continua a parlare di “sicurezza nazionale”. Tradotto: il sistema di licenze può tornare in qualunque momento, se la tensione tornerà a salire. È quindi corretto dire che la Cina ha tolto i freni? Sì, ma solo temporaneamente. La leva strategica resta lì, pronta per essere riattivata.
Sul versante agricolo, invece, la partita si gioca su un terreno ben più politico che economico. La soia americana è diventata negli anni il simbolo stesso della guerra commerciale: ogni volta che la Cina smette di comprarla, nelle contee rurali del Midwest – cuore del consenso repubblicano – si accendono campanelli d’allarme. La promessa di Pechino di riprendere “grandi acquisti” viene presentata come un trionfo: fino a 25 milioni di tonnellate l’anno per tre anni, secondo alcune stime. Ma finché non ci saranno contratti, bandi e spedizioni calendarizzate, è solo un impegno politico. Lo conferma la reazione fredda dei mercati: nessun rally euforico sui futures di Chicago, solo un cauto sollievo.
Sul piano strategico, Trump e Xi hanno evitato accuratamente di toccare i dossier più esplosivi: Taiwan, i semiconduttori, TikTok, l’intelligenza artificiale, la sicurezza marittima. Temi che richiedono altri tavoli, altri tempi e probabilmente altre contropartite. Anche per questo, il summit di Busan è stato costruito come un’operazione d’immagine: poche ore di faccia a faccia, molte dichiarazioni concilianti e la promessa di “riaprire i canali di dialogo economico”.
Per le imprese americane ed europee, tuttavia, il beneficio è immediato. La sospensione dei freni all’export cinese significa meno burocrazia doganale, tempi di consegna più brevi e un calo del “premio di rischio” sui materiali critici. Per un anno, almeno, le catene di approvvigionamento potranno respirare. Ma tutti sanno che è solo una finestra temporanea, e molte aziende stanno già accelerando i progetti di diversificazione delle forniture, spostando la raffinazione verso Paesi considerati più “affidabili”, come l’Australia o gli Stati Uniti stessi.
L’assenza di firme ufficiali non è un dettaglio secondario, anzi. È il cuore della strategia. Per Trump significa libertà d’azione: se la Cina non manterrà le promesse, potrà sempre rialzare i dazi e scaricare la responsabilità su Pechino. Per Xi, invece, è la garanzia di poter reintrodurre le restrizioni sull’export o limitare l’accesso a materiali strategici nel momento in cui Washington tornerà a colpire su altri fronti. È la diplomazia della tregua rinnovabile, una formula che lascia tutti con margini di manovra e nessuno davvero vincolato.
Le delegazioni tecniche lavoreranno ora sui dettagli: elenchi di prodotti, codici doganali, quantità, tempistiche e possibili sanzioni in caso di inadempienza. Trump ha già accennato a una possibile visita a Pechino in primavera, mentre Xi potrebbe ricambiare con un viaggio negli Stati Uniti. Ogni trimestre sarà una verifica: se i flussi di soia o di terre rare non si materializzeranno, la minaccia del ritorno dei dazi o dei controlli potrà tornare sul tavolo in poche ore.
In questa cornice, la tregua di Busan assomiglia a un compromesso di necessità. Una pausa utile per i mercati, che ritrovano ossigeno, e per due economie sotto pressione. Trump ha bisogno di stabilità per evitare nuovi scossoni sui prezzi interni, Xi deve tenere a bada una crescita fiacca e il malcontento industriale. Entrambi sanno che uno scontro frontale non conviene a nessuno.
Resta, però, la sensazione che si tratti solo di un rinvio del problema. I grandi nodi strategici – la corsa ai semiconduttori, l’intelligenza artificiale, la competizione militare e tecnologica – restano irrisolti. È difficile pensare che un anno di tregua possa cambiare i rapporti di forza tra due potenze che si guardano negli occhi da rivali. La definizione migliore resta quella di un armistizio economico: parole concilianti in pubblico, ingegneria di compromessi in privato.
Alla fine, la stretta di mano di Busan non è la fine della guerra commerciale, ma un nuovo inizio. Per dodici mesi, salvo colpi di scena, la filiera dei minerali critici e l’export agricolo USA–Cina avranno un po’ più di visibilità. È abbastanza per dire che la pace è tornata? No. È sufficiente per evitare nuovi incidenti di percorso? Forse sì. Ma quando Trump dice «È stato un incontro da 12 su 10», il voto sembra più un atto di marketing che una valutazione politica. In fondo, in questa partita, 10 significa sopravvivere e 12 vuol dire semplicemente guadagnare tempo.
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