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Ponte sullo Stretto, affonda prima di nascere: Salvini contro i giudici, Meloni urla all’invasione di campo

La Corte dei conti nega il visto alla delibera da 13,5 miliardi e blocca il progetto “del secolo”. Salvini parla di “casta giudiziaria” e promette di farlo approvare a colpi di Consiglio dei ministri e Parlamento. Meloni si infuria, ma il ponte resta dov’è da cinquant’anni: nel regno delle promesse

Ponte sullo Stretto, affonda prima di nascere: Salvini contro i giudici, Meloni urla all’invasione di campo

Matteo Salvini

Allo scoccare delle 19:54 del 29 ottobre, mentre Roma scivola nella solita confusione da ora di punta, la Corte dei conti decide di rovinare la serata a Matteo Salvini. Con un atto secco, quasi burocratico, i giudici contabili negano il visto alla delibera che approva il progetto definitivo del Ponte sullo Stretto di Messina. Un documento tecnico, uno di quei fogli che di solito finiscono impolverati negli archivi dei ministeri, ma che stavolta scoppia come una bomba.

In un lampo, il vicepremier si infuria, la premier Giorgia Meloni parla di “invasione di campo”, i social si riempiono di hashtag patriottici e di meme, e il dibattito nazionale torna, per l’ennesima volta, a galleggiare sospeso tra le due sponde dello Stretto, come il ponte che ancora non c’è.

Per Meloni, che sognava di tagliare il nastro e immortalarsi in un selfie con l’elmetto da cantiere, è l’ennesimo dispetto della burocrazia “che blocca il cambiamento”. Per Salvini, invece, è l’occasione perfetta per trasformare una nota contabile in un comizio. Si scaglia contro la “casta giudiziaria”, accusa la Corte dei conti di voler fermare il progresso, e annuncia la sua mossa: riportare la delibera in Consiglio dei ministri e poi farla votare dal Parlamento. Come se la volontà popolare potesse correggere i codici amministrativi con una scrollata di spalle. D’altronde, per il leader della Lega, i regolamenti sono sempre stati un fastidio: l’importante è poter dire che il Ponte “si farà”. Magari domani. O dopodomani. O tra cinquant’anni.

salvini

Il fatto, però, è che la Corte non ha bocciato il Ponte. Ha solo ricordato che perfino i sogni devono rispettare le regole. Il suo “no” non è una condanna a morte, ma un congelamento della delibera CIPESS n. 41/2025, approvata lo scorso agosto. E senza visto e registrazione, nessun atto produce effetti. Tradotto: il cantiere non parte, i fondi restano dov’erano e i proclami restano sospesi in aria come le torri da 399 metri che dovrebbero un giorno sostenere il ponte più lungo del mondo. Una grande opera da 13,5 miliardi di euro, promessa, cancellata e resuscitata a ogni stagione politica come una serie tv infinita.

Dietro la decisione dei giudici, ci sono cavilli che cavilli non sono. Il più spinoso riguarda la “reviviscenza” dei contratti del 2006, firmati con il consorzio Eurolink, guidato da Webuild (la ex Salini Impregilo), insieme a partner spagnoli e giapponesi. Contratti congelati quando il progetto fu accantonato, e che oggi il governo vorrebbe riportare in vita come se fossero freschi di stampa. Ma nel frattempo sono passati vent’anni, e le norme sugli appalti europei si sono fatte un tantino più severe. Ci sono soglie da rispettare, procedure da aggiornare, concorrenza da garantire. Tutte cose che a Salvini sembrano quisquilie, ostacoli di poco conto nel suo racconto da condottiero del Sud.

La Corte dei conti non si occupa di politica, ma di legittimità. E ha ricordato al governo che un contratto non è un talismano che basta sfregare per far ripartire le ruspe. Inoltre, c’è il piccolo dettaglio dei costi. Perché in un Paese dove un chilometro di autostrada costa come una navicella spaziale, il ponte sospeso da 3.666 metri, con sei corsie stradali e due binari ferroviari, non potrà certo rimanere fermo ai conti del 2006. Il tempo, si sa, non fa sconti: il cemento costa di più, l’acciaio pure, e anche le promesse elettorali, col passare degli anni, diventano più care.

Meloni, nel frattempo, recita il copione del governo che “non si fa intimidire”. Sostiene che i ministeri avevano fornito “puntuali risposte” ai rilievi dei giudici e che quella della Corte è solo l’ennesima intromissione. Ma la realtà è un po’ più complicata. L’atto non è illegittimo “per principio”, ma perché mancano alcune garanzie giuridiche ed economiche. Nulla che non si possa risolvere, certo, ma nemmeno una questione da risolvere a colpi di tweet.

Eppure, il ministro delle Infrastrutture rilancia: “Questa è la casta giudiziaria. Non ci fermeranno”.

E lì il paradosso tocca l’apice. Da anni la Lega si presenta come il baluardo dell’ordine e della legge, ma appena la legge non le dà ragione, diventa un fastidio da aggirare. Salvini annuncia un “doppio passaggio” in Cdm e Aula, come se bastasse un voto parlamentare per riscrivere il diritto amministrativo. Una sorta di “referendum emotivo” sul ponte, dove chi è contrario è automaticamente un sabotatore del progresso e, se possibile, anche un po’ comunista.

Nel frattempo, le cifre ballano come i traghetti nello Stretto. Si parla di 13,5 miliardi di euro, di cui quasi 7 miliardi dallo Stato, 4,6 dal Fondo Sviluppo e Coesione e altri 1,6 miliardi destinati a Sicilia e Calabria. Poi ci sono 370 milioni per la società Stretto di Messina S.p.A., che dovrà coordinare il tutto. Insomma, soldi veri, ma ancora fermi in attesa che qualcuno spieghi se possono davvero essere spesi.

Gli ambientalisti, da parte loro, non perdono occasione per ricordare che costruire un ponte in una delle aree più sismiche e ventose d’Europa è un azzardo tecnico e ambientale. WWF, Legambiente, Greenpeace, LIPU e altri movimenti hanno depositato memorie alla Corte parlando di impatti devastanti sugli ecosistemi marini, sulle rotte migratorie degli uccelli e sui fondali. Ma è chiaro che in questa narrazione il ruolo del “nemico del progresso” deve pur qualcuno interpretarlo, e chi meglio di chi osa chiedere rispetto per la natura?

Sul fronte politico, le opposizioni esultano: per loro è una lezione di legalità, un segnale che anche le grandi opere devono rispettare le regole. Ma la macchina della propaganda non si ferma. Nelle interviste ai giornali, Salvini continua a ripetere che il ponte è “strategico”, “necessario”, “un sogno che unisce l’Italia”. Un sogno, appunto. Perché nella realtà, più che unire, il ponte divide: divide la politica, divide le istituzioni e, soprattutto, divide l’opinione pubblica tra chi lo considera un investimento e chi lo vede come una gigantesca cattedrale nel mare.

Tecnicamente, il progetto è impressionante. Un’unica campata di 3.300 metri, quattro cavi da 1,26 metri di diametro composti da 44 mila fili d’acciaio ciascuno, una struttura capace di resistere a venti da uragano e terremoti da manuale. Un’opera da Guinness dei primati, certo, ma anche una sfida titanica in un Paese che non riesce nemmeno a finire il raddoppio ferroviario tra Battipaglia e Reggio Calabria.

E intanto, mentre si parla di campate, tiranti e torri, la domanda vera resta sospesa: serve davvero? Perché se collegare Sicilia e Calabria fosse così urgente, forse si sarebbe potuto cominciare dai treni che ancora oggi impiegano 10 ore per arrivare a Roma, o dalle strade che franano a ogni pioggia. Ma il ponte, si sa, non è un’infrastruttura: è un simbolo, un feticcio politico che serve a dimostrare che si “fa qualcosa di grande”, anche se di concreto non si vede ancora nulla.

Ora si attendono le motivazioni della Corte, che arriveranno entro 30 giorni. Lì si capirà se si tratta di problemi risolvibili con qualche integrazione o se bisognerà riscrivere l’intera delibera. Ma Salvini ha già scelto la sua narrazione: colpa dei giudici, colpa dell’Europa, colpa dei gufi. Lui andrà avanti, costi quel che costi. Anche se, per il momento, l’unica cosa che si è mossa davvero sono le dichiarazioni stampa.

Il paradosso finale è che, nel braccio di ferro tra giustizia contabile e politica, il ponte rischia di restare quello di sempre: un ponte tra parole e illusioni, tra proclami e rinvii, tra promesse e conti che non tornano mai. Ogni governo lo ha rispolverato per qualche campagna elettorale, e ogni volta è finito nel dimenticatoio, insieme alle ruspe mai accese e alle prime pietre mai posate.

Ma in fondo, il Ponte sullo Stretto è perfetto così: sospeso. Un monumento all’eterna attesa italiana, un cantiere che vive solo nei rendering e nei sogni dei ministri. È il ponte delle promesse, costruito con parole e voti, tenuto in piedi da una campata di propaganda e da due piloni solidissimi: la retorica e la rassegnazione.

E mentre Meloni denuncia “l’invasione di campo” e Salvini evoca la “casta giudiziaria”, la Corte dei conti resta lì, fredda, silenziosa, con il suo timbro in mano e la Costituzione nell’altra. L’unica vera opera pubblica completata, per ora, è il muro che divide la politica dalla realtà.

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