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“Populismo mai più”. L’Argentina di Milei vira a destra e prepara il Congresso più riformista della storia

In una notte di bandiere viola e slogan da stadio, Javier Milei celebra un trionfo oltre il 40%, riscrive la mappa politica del Paese e promette di completare la sua rivoluzione liberista. Ma dietro i numeri del successo si nascondono un’affluenza record al ribasso, tensioni sociali e l’incognita di un equilibrio politico ancora fragile

“Populismo mai più”. L’Argentina di Milei vira a destra e prepara il Congresso più riformista della storia

“Populismo mai più”. L’Argentina di Milei vira a destra e prepara il Congresso più riformista della storia

In una notte d’ottobre intrisa di cori, bandiere viola e adrenalina politica, davanti all’Hotel Libertador di Buenos Aires, un grido si è levato più alto di tutti: «Populismo mai più!». Sul palco, con la cravatta allentata e il tono da frontman rock, Javier Milei ha scandito le parole che sigillano una nuova era: «Gli argentini hanno detto basta al populismo. Populismo, mai più!». È il marchio politico di un voto che consegna a La Libertad Avanza oltre il 40% dei consensi, ridisegna la mappa del potere e rimette in moto quella macchina riformatrice che il presidente promette di spingere “fino in fondo”. Dal 10 dicembre, con l’insediamento del nuovo Parlamento, Milei assicura di voler guidare “il Congresso più riformista della storia argentina”. Non è solo una formula retorica, ma il cuore del suo progetto: smontare e rifare lo Stato, riscrivere il fisco e liberalizzare il lavoro. Per i detrattori, è il preludio a una frattura sociale senza precedenti.

Milei

Secondo i dati ufficiali provvisori diffusi nella notte del 26 ottobre 2025, La Libertad Avanza ha superato il 40,6% su base nazionale, staccando di quasi dieci punti il fronte peronista riunito sotto la sigla Fuerza Patria, fermo attorno al 31-32%. Un risultato che si traduce in un robusto incremento parlamentare: circa 64 nuovi seggi alla Camera e 14 al Senato, abbastanza per blindare decreti e veti, pur senza la maggioranza assoluta. In pratica, Milei conquista la forza politica per dettare l’agenda, ma dovrà ancora trattare giorno per giorno. C’è però un dato che pesa come un macigno democratico: l’affluenza, scesa al 67%, il livello più basso dalla fine della dittatura nel 1983. Un segnale di stanchezza e disillusione che attraversa trasversalmente la società argentina, e che accompagnerà la nuova stagione politica.

Nel discorso della vittoria, Milei ha alternato l’euforia da stadio al linguaggio tecnico della riforma. Ha promesso una nuova rivoluzione economica: liberalizzazione del mercato del lavoro, riduzione fiscale, revisione delle pensioni, tagli alla spesa pubblica e deregolamentazione spinta. “Difenderemo le riforme fatte e spingeremo quelle mancanti”, ha detto, chiamando a raccolta i governatori “pro-capitalisti” e lanciando segnali di apertura ai settori moderati dell’opposizione. Il messaggio è chiaro: l’era del welfare peronista è finita, e l’Argentina deve tornare “grande” con la disciplina del mercato e il sacrificio dei cittadini. La parola d’ordine “Populismo mai più” è diventata il perno retorico di una nuova ortodossia politica: quella che legge il voto come un referendum su un secolo di decadenza, imputato alle stagioni di sussidi e statalismo che hanno segnato la storia del Paese.

Nelle province agricole di Santa Fe e Córdoba, dove il linguaggio del libero mercato trova terreno fertile, l’onda libertaria ha raccolto consensi massicci. Promesse di apertura dei mercati e di riduzione dei dazi hanno convinto imprenditori e produttori agricoli stremati dall’instabilità. Ma il vero colpo simbolico è arrivato nella Provincia di Buenos Aires, roccaforte peronista, dove il fronte di Milei ha ribaltato, anche se di misura, la sconfitta di settembre nelle elezioni provinciali. In un’area che rappresenta quasi il 40% dell’elettorato nazionale, la rimonta racconta di un voto mobile, più che ideologico, figlio di un malcontento diffuso che non si traduce più in consenso al peronismo. La geografia del voto premia la narrazione del “punto di svolta” e del “non ritorno”, aiutata da segnali economici che, pur tra mille contraddizioni, offrono una storia da raccontare: inflazione in rallentamento, primi avanzi di bilancio dopo anni di deficit e taglio dei sussidi.

La tornata elettorale rinnovava 127 seggi su 257 alla Camera e 24 su 72 al Senato. Con oltre il 40% dei consensi, La Libertad Avanza e i suoi alleati raggiungono la soglia che permette di bloccare le leggi ostili e di sostenere i decreti dell’Esecutivo. Al Senato, il rafforzamento, sommato a possibili intese con settori del centrodestra, apre corridoi decisivi per far passare le riforme. Tuttavia, sarà inevitabile costruire alleanze variabili, soprattutto con i frammenti del vecchio PRO e con i governatori pragmatici. Alcuni ministri-candidati, come Patricia Bullrich alla Sicurezza e Luis Petri alla Difesa, eletti in Parlamento, spingeranno verso un rimpasto di governo. È già iniziato il riassetto del potere intorno a una nuova mappa istituzionale.

Gli osservatori internazionali hanno letto le legislative come un test di tenuta per le politiche di austerità. L’inflazione, precipitata da picchi vicini al 289% annuo nella primavera 2024 a poco più del 30% annualizzato, è diventata il vessillo della svolta. I mercati hanno reagito con entusiasmo, premiando la Borsa e rafforzando il peso. Ma dietro i numeri restano ferite aperte: salari compressi, consumi in caduta, povertà crescente. La scommessa di Milei è che il dolore sociale di oggi sia il prezzo per la ripartenza di domani. Non a caso il presidente ha insistito sul lessico del “sacrificio” e della “ricostruzione”, chiedendo ai suoi di resistere alle pressioni e ai governatori di sottoscrivere un “patto di basi” condiviso. Il voto non cancella lo scontro sociale, ma fornisce a Milei l’argomento politico per accelerare.

Da Washington intanto arrivano segnali di sostegno. I media internazionali parlano di un pacchetto di aiuti fino a 40 miliardi di dollari collegato, nelle intenzioni della Casa Bianca guidata da Donald Trump, all’esito delle elezioni. Una linea di credito o uno swap valutario, poco importa: l’asse con gli Stati Uniti viene percepito come una garanzia di stabilità dai mercati, ma anche come un nuovo vincolo di dipendenza dagli avversari interni. Per il peronismo è il pretesto perfetto per evocare l’ombra del “colonialismo finanziario”. Per Milei, invece, è ossigeno politico e monetario. La sfida sarà mantenere l’equilibrio tra fiducia internazionale e sovranità interna, evitando che il sostegno estero diventi un boomerang politico.

Sul fronte opposto, il peronismo appare disorientato. Le varie anime del movimento – dai kirchneristi ai moderati – faticano a trovare un linguaggio comune. In Provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof resta la figura più riconoscibile, ma la sua leadership è insidiata dal risentimento di una base che si sente tradita. Il partito conserva un peso parlamentare rilevante, ma non ha un progetto alternativo credibile. E in questa crisi d’identità Milei intravede il varco per dividere e cooptare, puntando sui segmenti più dialoganti.

Dietro l’espressione “Congresso più riformista della storia” si nasconde un piano preciso. Tre i pilastri: riforma del lavoro, con semplificazione contrattuale e riduzione del contenzioso; riforma fiscale, con taglio delle imposte e revisione dei sussidi; e riforma previdenziale, per rendere sostenibile un sistema invecchiato e inefficiente. Sul tavolo anche la riproposizione della Ley Bases, il testo madre della deregolamentazione. La chiave sarà la capacità del governo di trasformare l’impeto del palco in diplomazia parlamentare, bilanciando ideologia e compromesso.

Restano molte incognite. La prima è sociale: fino a che punto gli argentini accetteranno una cura deflattiva che ha già eroso stipendi e servizi pubblici? La seconda è politica: il voto dà forza, ma non un assegno in bianco. Ogni riforma richiederà numeri, negoziato e pazienza. La terza è internazionale: l’ancoraggio a Washington può dare stabilità, ma anche alimentare la narrativa di una subordinazione al capitale straniero. Intanto, nelle piazze, i sindacati scaldano i motori per una nuova stagione di proteste.

Il voto del 26 ottobre 2025 non chiude i conflitti, ma segna una transizione storica. Il peronismo, pur restando la più grande macchina politica del Paese, perde il monopolio del “racconto popolare”. La Libertad Avanza occupa l’immaginario del cambiamento, con un leader capace di mescolare linguaggio giovanile, iconoclastia anti-casta e riferimenti alle scuole economiche libertarie finora marginali. Milei esce dalle urne non solo come vincitore, ma come figura destinata a plasmare il dibattito politico dei prossimi anni. Il suo slogan, “Populismo mai più”, dovrà ora tradursi in politiche capaci di migliorare la vita di chi oggi fatica a pagare bollette e affitti. Perché non basterà l’energia del palco: serviranno compromessi intelligenti, una gestione fine dei tempi e la capacità di misurare gli impatti sociali. Se davvero questo sarà il Congresso più riformista della storia, lo diranno i prossimi 18 mesi. Intanto, la notte di Buenos Aires resterà impressa come il momento in cui un economista outsider ha trasformato un grido di piazza in un mandato politico, e l’Argentina ha deciso di scommettere ancora una volta sul rischio, invece che sulla paura.

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