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27 Ottobre 2025 - 22:28
Vittorio Raso nel momento dell'arresto nel 2022
“Ci eravamo presi una fetta dello stadio”. Risalgono indietro nel tempo, probabilmente al 2011 o al 2012, i rapporti fra la curva della Juventus e i boss della ‘ndrangheta. Ne ha parlato oggi in tribunale a Torino uno dei collaboratori di giustizia più importanti della Dda piemontese, Vittorio Raso, 45 anni, già noto alle cronache come uno dei narcotrafficanti più attivi nel Nord Italia. L’uomo ha testimoniato in videoconferenza — voltando le spalle alla telecamera per non mostrare il viso — nel corso di un processo per traffico internazionale di droga. E quando gli è stato chiesto come avesse conosciuto uno degli imputati, ha tirato in ballo la faccenda del bagarinaggio: “Vendevamo i biglietti per le partite, ce li passavano gratuitamente gli ultras del gruppo ‘Bravi Ragazzi’”. Un giro che, secondo la ricostruzione, fruttava decine di migliaia di euro a incontro.
Il nome di Raso non è nuovo alle cronache giudiziarie. Originario di Torino, legato a contesti ‘ndranghetisti attivi nel Nord Ovest, è stato indicato come uno dei più importanti referenti piemontesi del narcotraffico internazionale, con basi logistiche in Spagna. Arrestato a Barcellona il 23 giugno 2022, dove si era stabilito cinque anni prima, gestiva una rete che riforniva di hashish e marijuana il mercato italiano. Il suo arresto è arrivato dopo una lunga latitanza: era stato inserito ai vertici della lista dei ricercati italiani all’estero e la sua estradizione fu considerata un successo per la Dda di Torino. Da tempo, Raso collabora con la magistratura, fornendo dettagli su un sistema di connessioni che unisce droga, stadio e criminalità organizzata.

Le sue parole in aula, oggi, riaprono uno scenario già visto ai tempi dell’inchiesta Alto Piemonte, quando nel 2016 gli arresti avevano svelato per la prima volta gli intrecci fra la tifoseria organizzata bianconera e alcune famiglie di ‘ndrangheta. In quell’occasione emerse che il rampollo di una famiglia legata alla cosca Pesce–Bellocco, potentissima organizzazione calabrese di Rosarno, era riuscito a introdursi tra gli ultras e persino a entrare in contatto con dirigenti della Juventus — una società che, nel corso dei processi, fu sempre definita “vittima inconsapevole di circostanze sfuggite al suo controllo”. Uno dei capi della curva spiegò agli inquirenti che quel giovane era “uno da tenere buono nel caso fossero sorti dei problemi”. Ma più che la passione per il calcio, a muovere l’interesse erano i biglietti: pacchetti interi di tagliandi, venduti a prezzi maggiorati o usati come merce di scambio.
Le dichiarazioni di Raso retrodatano di alcuni anni l’interessamento della ‘ndrangheta verso questo business parallelo. Secondo le indagini, la gestione dei biglietti poteva fruttare oltre 20 mila euro a partita, con un sistema che prevedeva la distribuzione di blocchi di tagliandi in cambio del mantenimento dell’ordine in curva. Il tutto avveniva con la complicità o il silenzio di gruppi ultras organizzati, in un periodo in cui la curva Sud della Juventus era diventata un vero terreno di conquista per la criminalità. Le cosche cercavano visibilità e influenza, e lo stadio rappresentava un luogo ideale per muovere denaro, consenso e rapporti.
Raso ha raccontato anche come, nel tempo, quella rete di conoscenze nate tra gradinate e spogliatoi si trasformò in qualcosa di ben più pericoloso. “Nel 2019 mi arrestarono un amico – ha detto – ma rimasi in contatto con il suo socio, un ragazzo di Bosconero (Torino)”. Da lì i contatti si moltiplicarono: il traffico di stupefacenti diventò capillare, con corrieri che viaggiavano “su e giù per tutta l’Italia” e non riuscivano più a stare dietro alle richieste. Era stato lo stesso Raso a spingere per ampliare il giro, perché, come ha spiegato in aula, “un latitante deve sostenere molte spese”. I profitti erano tali da permettergli una vita agiata nei quartieri esclusivi di Barcellona, ma la condizione di clandestinità finì per logorarlo: “Non ce la facevo più”, ha confessato. Alla base della sua decisione di collaborare con la giustizia, ha aggiunto, c’è stato il turbamento profondo provato quando la sua compagna fu arrestata.
Il contesto in cui si muove Raso, quello della ‘ndrangheta al Nord, è lo stesso che vede la cosca Pesce–Bellocco estendere le proprie ramificazioni ben oltre la Calabria. Storicamente radicata a Rosarno e collegata alle famiglie Alvaro e Piromalli, la cosca Pesce–Bellocco ha interessi nel traffico di droga, nel riciclaggio e nella gestione di attività economiche nel Nord Italia, in particolare in Lombardia e Piemonte. Diverse indagini recenti hanno confermato la presenza del clan anche a Milano, dove venivano investiti i proventi del narcotraffico. La Dda ritiene che alcuni dei soggetti coinvolti nell’inchiesta Alto Piemonte fossero legati, direttamente o indirettamente, a questa struttura criminale.
A distanza di anni, le parole di Raso riannodano i fili di una storia torbida, dove il confine tra tifo e malaffare si è fatto sempre più sottile. Il calcio, ancora una volta, diventa lo specchio di una società che spesso non vuole vedere. Dietro le bandiere e i cori, si nascondeva un meccanismo di potere e denaro che la ‘ndrangheta aveva fiutato molto prima di quanto si pensasse. E, come ha detto oggi l’ex boss divenuto collaboratore, “una fetta dello stadio ce l’eravamo presa davvero”.
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Dentro la Notizia
Erano circa le 19 del 7 agosto 2019 quando, in una panchina del Parco degli Acquedotti a Roma, veniva assassinato con un colpo di pistola alla testa Fabrizio Piscitelli, per tutti Diabolik, fondatore e leader indiscusso degli Irriducibili Lazio, gruppo ultras della Curva Nord, che ha fatto la storia delle tifoserie organizzate non solo in Italia.
Cinque anni dopo a Milano altri due ultrà, Antonio Bellocco, 39 anni, e Andrea Beretta, 49 anni, diventano notizia di cronaca dopo che il primo è stato accoltellato a morte dal secondo, che era stato ferito dall'amico con un colpo di pistola.
Beretta è un capo ultra dell'Inter (tifoseria gemellata con la Lazio), Bellocco era un volto meno conosciuto sugli spalti, che comunque frequentava, ma non era certamente un signor nessuno.
Un omicidio e un ferimento che riportano alla ribalta i presunti collegamenti tra gli ultras e la criminalità organizzata, com'era stato per l'assassinio di 'Diablo'.
Bellocco per gli inquirenti "non è uno qualsiasi": ha alle spalle precedenti per associazione di stampo mafioso.
Beretta invece era legato a Vittorio Boiocchi, storico leader neroazzurro ucciso con cinque colpi di pistola sotto casa due anni fa. Lo 'Zio', come veniva chiamato in curva, era uscito di carcere nel giugno 2018, dopo una lunga detenzione.
Aveva ripreso a gestire il settore da vecchio Boys San qual era, anche se in realtà lui a San Siro non ci poteva andare perché sottoposto a provvedimento di divieto. Dopo la sua morte la procura di Milano propone al nuovo procuratore nazionale antimafia, Gianni Melillo, la creazione di un gruppo specializzato per indagare sulla connessione tra tifoserie e criminalità.
Dunque sulle infiltrazioni nelle curve investigatori e magistrati sono già a lavoro da tempo.
Il business dei biglietti, ovvero il bagarinaggio e la richiesta di favori alle società, ha portato a Torino alla prima condanna per associazione a delinquere a dei capi ultras della Juventus nel processo Last Banner. Una partita, di quelle di cartello, può far entrare nelle tasche degli ultras fino a 30mila euro.
Nel 2016 la squadra mobile di Torino, coordinata dalla Dda, aveva scoperto che alcuni che uomini legati alla cosca Pesce-Bellocco erano presenti spesso e volentieri allo stadio della Juventus.
Dall'inchiesta che ne nacque, Alto Piemonte, era emerso il tentativo da parte della criminalità organizzata di entrare in curva bianconera, anche con la creazione di nuovi gruppi ultras.
Altre inchieste sono state aperte a Cagliari sugli Sconvolts: le accuse vanno dall'estorsione al traffico di stupefacenti. Ma non ci solo i biglietti: c'è la vendita del materiale e soprattutto la gestione della droga nei settori più caldi. Anche i furgoni dei paninari diventato parte del gioco, bocconi ghiotti soprattutto per la 'ndrangheta. Infine la manovalanza che possono offrire i duri delle curve quando c'è da recuperare crediti per la malavita.
Come avveniva per quelli della 'batteria di Ponte Milvio' gestita da Diabolik. Da tempo le lotte intestine negli stadi non riguardano più la politica, anche se l'estrema destra ha preso sempre più piede persino in curve storicamente di sinistra. Non si conquista più una curva per esporre una bandiera raffigurante il Che o una croce celtica. Ma solo per affari. I cui conti vengono poi regolati a colpi di pistola o con un fendente alla gola.
L'inchiesta "Alto Piemonte" ha svelato un intreccio inquietante tra la criminalità organizzata calabrese e il mondo degli ultras della Juventus, portando a numerose condanne. Al centro dell'indagine, avviata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Torino, c'erano i rapporti tra la 'ndrangheta, rappresentata dalla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, e alcune frange del tifo organizzato bianconero, in particolare i “Drughi”.
L'indagine ha evidenziato il controllo mafioso sulla distribuzione e il bagarinaggiodei biglietti per le partite della Juventus, un business che avrebbe fruttato ingenti profitti alla criminalità organizzata.
Nel giugno 2017, il Tribunale di Torino ha emesso le prime sentenze, condannando 13 persone coinvolte nell’inchiesta. Rocco Dominello, leader dei “Drughi” e figlio di Saverio Dominello, un esponente della cosca Pesce, è stato condannato a 7 anni e 9 mesi di carcere per associazione mafiosa e tentato omicidio. Suo padre, Saverio Dominello, è stato condannato a 12 anni, un mese e 10 giorni, per lo stesso reato, oltre che per due estorsioni. Altri imputati hanno ricevuto pene variabili tra i 3 e i 15 anni.
Durante il processo, Saverio Dominello ha ammesso di far parte della ‘ndrangheta, ma ha cercato di scagionare il figlio, sostenendo che Rocco non fosse a conoscenza dei suoi legami mafiosi. Tuttavia, per la procura, il ruolo di Rocco era chiaro: tramite il controllo del bagarinaggio, aveva stabilito legami tra il tifo organizzato e la malavita, sfruttando la sua posizione di potere tra gli ultras.
Nel 2019, la Corte d’Appello di Torino ha confermato gran parte delle condanne, sebbene con alcune riduzioni. Rocco Dominello ha visto la sua pena ridotta a 5 anni e 4 mesi, mentre suo padre Saverio è stato condannato a 8 anni e 8 mesi. Condannato anche Fabio Germani a 4 anni, 5 mesi e 10 giorni per concorso esterno in associazione mafiosa, per aver introdotto Rocco Dominello nei circoli della Juventus, favorendo così gli interessi della ‘ndrangheta nel bagarinaggio.
In Cassazione, Fabio Germani è poi stato assolto definitivamente, poiché la Suprema Corte non ha ritenuto sufficienti le prove per confermare il suo coinvolgimento.
Parallelamente al processo penale, l’inchiesta ha avuto ripercussioni anche a livello sportivo.
I vertici della Juventus, incluso il presidente Andrea Agnelli, erano finiti sotto accusa per i presunti contatti con esponenti mafiosi. Agnelli, insieme ad altri dirigenti come il responsabile della sicurezza Alessandro d’Angelo e il responsabile della biglietteria Stefano Merulla, erano stati accusati di aver intrattenuto rapporti illeciti con i gruppi ultras. Nel 2017, la Corte d’Appello della FIGC ha inflitto ad Agnelli un’inibizione temporanea, sanzione che il presidente aveva già scontato al momento della sentenza.
Il processo sportivo ha messo in luce la vulnerabilità delle società calcistiche nei confronti della criminalità organizzata, evidenziando come la gestione dei biglietti e l’influenza sugli ultras possano diventare terreno fertile per infiltrazioni mafiose.
L’inchiesta "Alto Piemonte" ha rappresentato un’importante svolta nella lotta contro le infiltrazioni mafiose nel Nord Italia, dimostrando come la ‘ndrangheta sia in grado di insinuarsi in settori apparentemente distanti dal crimine organizzato, come il calcio.
Nonostante le riduzioni di pena in Appello e l’assoluzione di Germani in Cassazione, le condanne hanno confermato il quadro accusatorio, chiudendo un capitolo fondamentale nella battaglia contro la criminalità organizzata nel Settentrione.
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