Cerca

Esteri

L’America si ferma: Trump vola in Asia mentre a Washington il governo è in tilt

Il presidente cerca accordi e gloria all’estero, ma negli Stati Uniti infuria lo shutdown: lo Stato è bloccato, centinaia di migliaia di dipendenti senza stipendio, servizi fermi e tribunali che lo inseguono. Un leader assediato da crisi, accuse e promesse irrealizzabili

L’America si ferma: Trump vola in Asia mentre a Washington il governo è in tilt

L’America si ferma: Trump vola in Asia mentre a Washington il governo è in tilt

Donald Trump è di nuovo in viaggio, e come sempre il mondo lo osserva come si guarda un film che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Il suo Boeing bianco e blu — l’Air Force One — fende il cielo diretto verso l’Asia, e dentro quella fusoliera presidenziale si muove un uomo che alterna sorrisi e furie, promesse e minacce, diplomazia e caos. Vuole incontrare Xi Jinping, vuole strappare un accordo con la Cina, vuole — dice lui — “porre fine” alla guerra in Ucraina. Ma dietro quelle parole, dietro quel linguaggio da affare globale, si nasconde il panorama più complicato e fragile della sua presidenza. Perché Trump, oggi, non combatte una sola battaglia: ne combatte dieci, contemporaneamente, e spesso contro sé stesso.

Negli Stati Uniti il suo governo è in ginocchio. Lo shutdown federale — quel termine tecnico che nasconde un disastro politico — è diventato il simbolo della paralisi americana. Ma che cos’è davvero lo shutdown? È, in sostanza, la chiusura legale del governo federale: un blocco quasi totale delle attività pubbliche quando il Congresso non approva, entro la scadenza prevista, il bilancio e i fondi per far funzionare lo Stato. Accade perché la legge americana vieta di spendere anche un solo dollaro federale senza autorizzazione del Parlamento. E così, quando la politica litiga e non trova un accordo, il governo si spegne. Letteralmente. Gli uffici chiudono, i dipendenti vengono mandati a casa o costretti a lavorare senza paga, i parchi nazionali abbassano le saracinesche, i musei si svuotano, i controlli sanitari rallentano, le famiglie aspettano assegni che non arrivano. Lo shutdown non è una metafora: è la fotografia di uno Stato che si ferma perché la politica ha perso la capacità di decidere. E questa volta il blocco dura da settimane, rischiando di diventare il più lungo della storia moderna.

Trump, come sempre, ha scelto la sfida frontale. Si è rifiutato di firmare compromessi, ha accusato i democratici, ha promesso che “resisterà finché serve”. Ma ogni giorno di paralisi è un colpo alla credibilità della sua amministrazione. Centinaia di migliaia di dipendenti federali non ricevono lo stipendio, i servizi essenziali arrancano, e la sensazione di disordine cresce. È l’America del “grande governo che non governa”, dove persino le luci della Casa Bianca sembrano lampeggiare come in un film apocalittico.

Come se non bastasse, nel frattempo, arrivano nuovi colpi dai tribunali. Trump è il presidente più incriminato della storia moderna. Dalle cause per frode legate alla sua organizzazione immobiliare alle inchieste federali sulla gestione di documenti riservati, il fronte giudiziario è sterminato. Ogni settimana un nuovo procedimento, un’udienza, un rinvio, un’inchiesta parallela. I suoi avvocati si alternano come in una staffetta infinita. Il presidente tuona contro “i giudici corrotti”, accusa i procuratori di essere “agenti del Deep State”, ma il tempo e l’attenzione che spende a difendersi sono ormai pari a quelli che dovrebbe dedicare a governare. La giustizia americana, che per lui è una trincea, è diventata anche lo specchio della sua vulnerabilità.

Trump

Eppure, Trump non arretra. Parte per un tour asiatico che vorrebbe essere il suo riscatto. Giappone, Corea del Sud, forse Kuala Lumpur. Vuole riportare a casa un successo da mostrare al Paese come trofeo: un accordo con Xi Jinping, una promessa di pace, una tregua commerciale. Ma sotto la patina della diplomazia, si percepisce il nervosismo di un uomo che sa di essere accerchiato. Anche questo viaggio ha un doppio scopo: guadagnare tempo e distogliere l’attenzione dal caos interno. E allora ecco i titoli roboanti: “Trump vuole che la Cina eserciti pressioni sulla Russia”, “Trump pronto a un accordo per l’Ucraina”. Dichiarazioni rilasciate a bordo dell’Air Force One, con il tono del comandante che finge sicurezza anche quando la tempesta è in arrivo. “Incontrerò Putin solo se ci saranno garanzie per la pace. Non voglio perdere tempo”, ha detto. Ma la realtà è che nessuno, né a Mosca né a Pechino, sembra disposto a lasciargli quel ruolo di mediatore che tanto brama.

Intanto, a Washington, la tensione cresce. Gli americani guardano con rabbia le notizie dello shutdown, leggono delle spese folli per la nuova “ballroom presidenziale” da 250 milioni di dollari in costruzione all’East Wing della Casa Bianca — un progetto di lusso nel momento in cui migliaia di lavoratori pubblici non ricevono la paga. È l’ennesimo paradosso di questa presidenza: un Paese fermo e un presidente che costruisce sale da ballo. I media lo attaccano, i social lo deridono, ma Trump continua come se nulla fosse. Per lui ogni polemica è un campo di battaglia. E più la battaglia infuria, più si sente vivo.

La “guerra alla droga” è un altro capitolo inquietante. La Casa Bianca ha autorizzato operazioni militari nei Caraibi e nel Pacifico: droni, missili, navi affondate, quaranta o forse più morti in mare. L’operazione, presentata come una crociata contro i cartelli, ha sollevato l’indignazione di molti alleati. Diverse vittime non erano criminali, ma pescatori o marinai civili. Trump difende l’azione: “Erano complici dei narcos, non innocenti”, ha detto. Ma i numeri restano: decine di corpi, acque internazionali violate, un Congresso che chiede spiegazioni. Il presidente risponde accusando i critici di “amare i trafficanti”. È la sua strategia: ogni opposizione diventa un nemico del popolo.

Sul piano politico, la sua stessa maggioranza inizia a scricchiolare. I repubblicani moderati parlano apertamente di “crisi di governo”, i falchi invocano un giro di vite ancora più duro. Trump resta prigioniero della sua stessa retorica: non può arretrare senza sembrare debole, non può avanzare senza rischiare il collasso. Così sceglie di rilanciare, come sempre. Promette nuove sanzioni contro Mosca, minaccia dazi “ancora più potenti” sulla Cina, e parla di una “seconda rinascita americana”. Le televisioni trasmettono in diretta le sue dichiarazioni, mentre dietro le quinte la realtà è ben diversa: gli uffici federali vuoti, le code agli sportelli chiusi, i contratti pubblici sospesi. È l’America bloccata dal suo stesso leader.

Eppure, c’è un paradosso che rende questa storia quasi shakespeariana. Trump sembra prosperare nel caos. Lo alimenta, lo cavalca, lo trasforma in energia politica. Ogni scandalo lo rafforza con i suoi fedelissimi, ogni attacco diventa prova della sua forza. È un gioco rischioso, ma fino ad oggi gli ha permesso di sopravvivere. L’immagine che vuole proiettare è quella del combattente che non molla mai, del patriota circondato da nemici interni ed esterni. Ma il prezzo di questa narrazione è altissimo: un Paese polarizzato, un’economia sospesa, un apparato federale esausto.

L’America, quella reale, è stanca. Gli insegnanti senza stipendio, i ranger dei parchi licenziati, gli uffici postali che riducono le ore di apertura, gli scienziati costretti a fermare ricerche. Tutto questo mentre il presidente vola verso l’Asia per inseguire l’ennesimo titolo mediatico. La distanza tra Washington e il mondo reale non è mai stata così ampia.

C’è un momento, raccontano i reporter a bordo dell’aereo, in cui Trump si chiude nella sua cabina e resta in silenzio a guardare fuori dal finestrino. Qualcuno dice che abbia ricevuto una notizia sui suoi contenziosi giudiziari, qualcun altro giura di averlo visto più cupo del solito. Forse, per un attimo, ha percepito il peso di tutto ciò che lo circonda: un Paese stremato, una Casa Bianca sotto assedio, un mondo che non crede più alle sue promesse. Ma un attimo dopo, come sempre, sorride, si aggiusta la cravatta e torna davanti alle telecamere. Perché Trump non può permettersi di fermarsi: il suo potere è fatto di movimento, di spettacolo, di illusione. E finché una telecamera resta accesa, lui continuerà a essere il protagonista.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori