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Da Mosca a Miami: la guerra viaggia in giacca e cravatta

Il viaggio di Kirill Dmitriev negli Stati Uniti riapre il fronte diplomatico del Cremlino mentre a Londra i “volenterosi” giurano fedeltà a Zelensky. Tra nuove sanzioni, villaggi conquistati e provocazioni nei cieli baltici, la crisi russo-ucraina si trasforma in un gioco di potere dove la pace resta solo una parola da convegno

Da Mosca a Miami: la guerra viaggia in giacca e cravatta

Kirill Dmitriev

È partito quasi in sordina, Kirill Dmitriev, l’uomo che il Cremlino considera la propria “faccia economica” verso il mondo. Ma il suo viaggio negli Stati Uniti — confermato dal diretto interessato come “un incontro a lungo pianificato”— ha riacceso i riflettori su una crisi che, dopo più di tre anni di guerra, è tutt’altro che congelata. Dietro la sua missione diplomatica si nasconde il tentativo di Mosca di riaprire canali, ricucire rapporti, o quantomeno tastare il terreno in quello che resta il più importante teatro economico e politico globale. Ma mentre il rappresentante del Cremlino per la cooperazione economica con l’estero attraversa l’oceano, l’Europa si ritrova a Londra, unita nel nome dei cosiddetti “volenterosi”, a parlare di missili, sanzioni e resistenza ucraina.

Una partita a più mani, dunque, dove ogni mossa economica o diplomatica sembra ormai intrecciata con la strategia militare. E la guerra, come sempre, continua a divorare uomini, risorse e verità.

Il viaggio di Kirill Dmitriev, capo del Russian Direct Investment Fund (RDIF), avviene in un momento di particolare tensione tra Russia e Stati Uniti. Solo pochi giorni prima, Washington aveva inasprito le sanzioni contro il petrolio russo, colpendo direttamente Rosneft e Lukoil, due colossi dell’energia che rappresentano la spina dorsale delle entrate del Cremlino. Eppure, Dmitriev — un economista raffinato, cosmopolita, abituato ai salotti finanziari globali — ha deciso di varcare comunque i confini del “nemico”. Nessun dettaglio sul suo itinerario ufficiale, ma diverse fonti americane hanno parlato di incontri a Miami, con uomini d’affari come Steve Witkoff, vicino ai circoli repubblicani.

Dmitriev non ha nascosto il significato politico della visita. “Il dialogo deve continuare”, ha detto ai giornalisti, lasciando intendere che Mosca vuole tornare a parlare con Washington, ma “solo nel rispetto degli interessi della Russia”. In altre parole: nessuna resa, ma la ricerca di spiragli. È un linguaggio da diplomazia fredda, ma che rivela molto del momento. La Russia sa di essere isolata, ma non rassegnata. Vuole restare al tavolo dei grandi, e se per farlo serve una passerella americana, ben venga.

Sul piano economico, Dmitriev ha messo le mani avanti: le nuove sanzioni americane, ha detto, finiranno per “colpire gli stessi Stati Uniti”, facendo salire il costo della benzina e destabilizzando i mercati energetici globali. È la solita leva russa: la minaccia dell’energia, usata come strumento di pressione. Mosca punta a far capire a Washington che non si può isolare la Russia senza pagarne il prezzo. Ma il tempismo del viaggio — proprio mentre la coalizione occidentale rafforza il proprio sostegno a Kyiv — lascia pensare a una mossa calcolata: un messaggio al mondo, un monito agli alleati, e un tentativo di accreditarsi come interlocutore ancora valido.

Mentre Dmitriev vola verso l’America, a Londra va in scena la riunione dei cosiddetti “volenterosi”. Il primo ministro britannico Keir Starmer ospita i leader di diversi Paesi europei, con collegamenti diretti da Washington, Roma, Parigi e Berlino. C’è anche Volodymyr Zelensky, visibilmente provato ma determinato, collegato da Kyiv. È lui a dettare la linea: “Abbiamo bisogno di missili a lungo raggio, di sanzioni più dure, di una risposta coordinata contro l’aggressione russa”. Non più solo difesa, dunque, ma capacità di colpire in profondità.

Zelensky

Giorgia Meloni, in collegamento da Palazzo Chigi, ribadisce il sostegno italiano: “L’Italia è al fianco dell’Ucraina, e lavoriamo per un coordinamento europeo sulle forniture di armi”. È il linguaggio della lealtà atlantica, ma anche della cautela: Meloni sa che l’opinione pubblica italiana è stanca della guerra e diffidente verso nuove spese militari. Così, mentre annuisce a Londra, precisa che Roma non invierà truppe, ma si limiterà a fornire supporto logistico e tecnico.

I “volenterosi” si muovono su un doppio binario: da una parte l’aumento delle forniture militari, dall’altra la costruzione di garanzie di sicurezza per l’Ucraina, in vista di un futuro postbellico. Si parla di difesa aerea, protezione delle infrastrutture energetiche, e soprattutto di mantenere la coesione interna dell’Europa. Perché, come sanno bene a Bruxelles, la guerra in Ucraina non è solo una questione di missili: è una battaglia di nervi, di risorse e di consenso politico.

Ma mentre a Londra si discute di principi e strategie, sul campo le cose restano brutali. Il 24 ottobre il ministero della Difesa russo annuncia di aver conquistato tre nuovi villaggi nell’est del Paese: Bolohivka, nella regione di Kharkiv, Promin, nel Donetsk, e Zlagoda, nel Dnipropetrovsk. Tre nomi che non dicono molto al grande pubblico, ma che sul fronte contano eccome. Sono piccoli punti, ma rappresentano una costante: quella lenta, implacabile avanzata russa, metro dopo metro, villaggio dopo villaggio.

Il Cremlino presenta ogni conquista come una vittoria storica. Kyiv risponde che sono solo “buchi sulla mappa”, guadagni temporanei destinati a essere ripersi. Ma la verità, come sempre, sta nel mezzo. La Russia continua a macinare terreno, anche se al prezzo di enormi perdite, e l’Ucraina resiste, ma con risorse sempre più logore. L’arrivo dell’inverno, come ogni anno, promette di congelare non solo il fango, ma anche le speranze.

Sul piano internazionale, le tensioni non si limitano al fronte orientale. Nello stesso giorno, la Lituania denuncia una violazione del proprio spazio aereo da parte di due aerei militari russi — un Su-30 e un IL-78 — decollati da Kaliningrad. Un incidente grave, che Vilnius definisce “un atto deliberato di provocazione”. Mosca nega tutto, ma la NATO reagisce convocando riunioni d’urgenza e avvertendo che “la sicurezza collettiva dell’Alleanza non è negoziabile”.

L’episodio baltico, apparentemente marginale, ha in realtà un valore simbolico fortissimo. Dimostra che la Russia non si limita a combattere in Ucraina, ma continua a testare i limiti dell’Alleanza atlantica. Ogni sconfinamento, ogni esercitazione, ogni provocazione serve a misurare la risposta occidentale, a mantenere alta la tensione, a ricordare al mondo che il conflitto non è circoscritto.

E l’Europa, nel frattempo, si divide. Bruxelles discute dell’uso dei beni russi congelati — centinaia di miliardi di euro bloccati dopo l’invasione — per finanziare la ricostruzione ucraina. Ma non tutti sono d’accordo. Il Belgio, dove si trovano molti di quegli asset, chiede prudenza: teme ricorsi legali, ritorsioni e danni alla propria reputazione finanziaria. Altri Paesi, come la Germania, temono che l’uso forzato di fondi russi possa creare un precedente pericoloso, un boomerang legale. L’Ucraina, naturalmente, spinge per lo sblocco immediato: “È denaro rubato — dice Zelensky — e deve tornare a chi sta pagando il prezzo della guerra”.

In questo scenario frammentato, il viaggio di Dmitriev negli Stati Uniti assume contorni ancora più ambigui. È davvero una missione economica o un messaggio politico? Ufficialmente, si parla di incontri con potenziali investitori e di discussioni su progetti comuni nel settore energetico e minerario, comprese le terre rare, risorsa cruciale per le tecnologie verdi e la difesa. Ma è difficile credere che a Washington non si sia parlato anche di Ucraina.

La figura di Kirill Dmitriev è centrale nel nuovo corso diplomatico del Cremlino. Ex banchiere formato tra Stanford e Harvard, è il volto moderno della Russia che cerca di restare agganciata all’economia globale pur sotto embargo. È stato lui, nel 2020, a lanciare lo Sputnik V, il vaccino russo contro il Covid, e oggi si propone come “costruttore di ponti” in un mondo che non crede più ai ponti. La sua missione americana, quindi, va letta come un test: capire fino a che punto gli Stati Uniti sono disposti a dialogare, e quanto l’economia possa ancora funzionare da leva diplomatica.

Dmitriev sa bene che le sanzioni hanno colpito duro. Ma la Russia, grazie al petrolio venduto in Asia e all’oro, ha retto meglio del previsto. E sa che la stanchezza occidentale gioca a suo favore. In Europa cresce la fatica del sostegno a Kyiv, e negli Stati Uniti, con un’elezione alle porte, anche la Casa Bianca deve bilanciare la fermezza con la convenienza politica.

Ecco perché la sua presenza a Miami, in un contesto informale e lontano dalle capitali istituzionali, sembra tutt’altro che casuale. È un messaggio sottile: la Russia non è isolata, ha ancora interlocutori, amici, affari. E se l’Europa si irrigidisce, Mosca guarda altrove — agli Stati del Golfo, all’Africa, alla Cina, e persino agli Stati Uniti, se qualcuno è disposto a parlare.

Sul fronte opposto, però, l’Ucraina non si arrende. Zelensky appare sempre più solo ma sempre più deciso. “Non vogliamo sopravvivere, vogliamo vincere”, ha detto a Londra, tra gli applausi. Le sue parole hanno un sapore amaro: sanno di una guerra che non ha fine e di una resistenza che, per continuare, ha bisogno di soldi, armi e pazienza. È consapevole che il tempo è la vera arma del Cremlino. Più la guerra si trascina, più l’attenzione dell’Occidente si disperde, più le divisioni interne crescono.

Intanto, sul terreno, le cifre restano terribili. Migliaia di vittime civili, infrastrutture distrutte, città ridotte in rovine. L’inverno porta con sé nuove emergenze: elettricità razionata, acqua contaminata, scuole chiuse. Le sirene antiaeree continuano a scandire le giornate di Kyiv, e le famiglie si rifugiano nei sotterranei come tre anni fa.

Il viaggio di Dmitriev e la riunione dei volenterosi sono due facce della stessa medaglia: la diplomazia che cerca spiragli e la guerra che li chiude. Da un lato, l’illusione di un dialogo economico che possa riaprire le porte; dall’altro, la realtà di una guerra che continua a divorare tutto.

La crisi russo-ucraina, oggi, è un paradosso permanente. È un conflitto che tutti dicono di voler chiudere, ma che nessuno vuole davvero fermare. L’Occidente teme che un cessate il fuoco congeli le conquiste russe; Mosca sa che un negoziato significherebbe ammettere la sconfitta. Così, si continua a combattere, a parlare, a sanzionare, a negoziare a porte chiuse.

E in questo balletto di guerre e di parole, il viaggio di Kirill Dmitriev negli Stati Uniti resta il simbolo più ambiguo: quello di un Paese che non vuole essere escluso dal mondo e che, pur sotto embargo, continua a bussare alle porte della finanza globale.

Intanto, l’Ucraina aspetta. E combatte. Londra, Bruxelles e Washington discutono, ma sul Dnipro e nel Donbass il rumore che domina non è quello delle diplomazie, ma quello delle esplosioni. Forse è questo il vero dramma di questa guerra: che mentre si cercano compromessi, il compromesso più grande, quello con la verità, è già stato firmato da tutti.

Insomma, la crisi russo-ucraina è arrivata al punto in cui ogni mossa, ogni viaggio, ogni dichiarazione è al tempo stesso un passo verso la pace e un passo verso l’abisso. E se la missione di Kirill Dmitriev negli Stati Uniti è servita a qualcosa, è solo a ricordarci che, nel grande gioco della geopolitica, anche un incontro “a lungo pianificato” può avere l’effetto di una miccia.

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