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Meloni, da premier a “cheerleader”: il Senato come un palazzetto dello sport

Scintille in Aula dopo la battuta di Alessandra Maiorino (M5S) che definisce la premier “cheerleader di Trump”. Il centrodestra esplode, La Russa tenta di arbitrare, Croatti difende a voce alta. Altro che politica estera: ormai serve il megafono

Meloni, da premier a “cheerleader”: il Senato come un palazzetto dello sport

Giorgia Meloni

Scene da varietà in Senato. E non uno qualunque: il teatro della Repubblica, dove un tempo si discutevano Costituzioni, oggi si litiga per il titolo di “cheerleader”. A lanciare la scintilla è stata la senatrice Alessandra Maiorino del Movimento 5 Stelle, che nel suo intervento sulle comunicazioni in vista del Consiglio europeo ha infilato una frase destinata a rimbalzare per giorni: «Abbiamo dovuto vederla nelle vesti di cheerleader del presidente di un altro Paese». Il riferimento? Neanche a dirlo, alla premier Giorgia Meloni, che – secondo la parlamentare pentastellata – avrebbe ormai adottato la postura di chi applaude ogni mossa di Donald Trump, anche quando le sue idee su Gaza o sull’Ucraina fanno accapponare la pelle a mezzo mondo.

Alessandra Maiorino

Alessandra Maiorino 

Dai banchi del centrodestra, ovviamente, si è levato il solito boato di indignazione. Qualcuno ha gridato “vergogna!”, qualcun altro ha chiesto che la frase fosse cancellata dal resoconto stenografico, come se la parola cheerleader fosse un insulto più grave di “fascista” o “inciucione”. Il presidente del Senato Ignazio La Russa, con la pazienza di un professore esasperato da una classe di prima media, è intervenuto più volte per ristabilire la calma, invitando tutti alla moderazione. Moderazione che, nel Parlamento italiano, è un concetto teorico: appena uno prova a riprendere fiato, l’altro sbraita.

Nel frattempo, Marco Croatti, collega di partito della Maiorino, non ha resistito alla tentazione di alzare la voce in difesa della compagna di banco. Il suo intervento, più che una difesa d’ufficio, è sembrato un “ora basta, lasciatela parlare” urlato sopra un frastuono da curva sud. La Russa, con il microfono ormai incandescente, lo ha richiamato all’ordine: «Creare tensione oggi non funziona». Frase che, detta in un’aula dove si urla come in un mercato del pesce, suona più o meno come “non accendere il fuoco mentre brucia la casa”.

Il risultato? Una scenetta degna di “Camera Cafè”, solo con meno ironia e stipendi più alti. Da una parte la senatrice grillina che accusa la premier di fare la pom-pom girl di Trump, dall’altra la maggioranza che grida al sacrilegio, e nel mezzo un presidente del Senato che cerca di gestire la baracca come il capotreno di un Frecciarossa in ritardo. In tutto questo, il tema del giorno – le comunicazioni del Consiglio Ue, cioè la posizione dell’Italia su guerra, economia e politiche comuni – è rimasto in un angolo, dimenticato come un punto all’ordine del giorno troppo noioso per essere discusso.

C’è però un filo che lega questo episodio ai precedenti. A giugno, la stessa Maiorino era finita sotto tiro per aver detto che Meloni “scodinzolava” al vertice NATO. Allora a presiedere c’era Licia Ronzulli, che la richiamò all’ordine. Stavolta, la senatrice ha alzato l’asticella linguistica: dal “cagnolino” alla “cheerleader”. Forse nel prossimo intervento ci toccherà sentire di un karaoke internazionale. E chissà, magari la premier, stufa di essere accusata di servilismo, risponderà citando il suo idolo: «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, e tifo chi voglio».

Il punto politico, ovviamente, si perde tra un applauso e una protesta. Ma resta l’immagine di un governo che viene percepito – a torto o a ragione – come eccessivamente allineato alle linee d’oltreoceano. La cheerleader di Trump, nella retorica di Maiorino, è una metafora del servilismo internazionale, dell’Italia che salta quando Washington batte le mani. Un tema serio, insomma, ma finito in una baruffa da talk show. Perché la politica italiana riesce a banalizzare anche le questioni più spinose: basta una parola colorita e il resto del dibattito evapora come un tweet cancellato.

Intanto, i giornali della destra si indignano, quelli dell’opposizione sorridono sotto i baffi, e gli italiani guardano la scena con la solita, rassegnata incredulità. Perché, alla fine, il Senato è diventato il palcoscenico perfetto per la politica-spettacolo: ci sono i protagonisti, i fischi, le risate, e ogni tanto persino qualche lacrima di coccodrillo. Solo che il biglietto lo paghiamo tutti. E a giudicare dalla qualità dello spettacolo, il prezzo è decisamente troppo alto.

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