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20 Ottobre 2025 - 13:29
Ivrea, esplode il caso della “zia d’America”: un'eredità da 2,5 milioni di euro sparisce in un nome
Un’eredità milionaria, otto testamenti in dodici mesi e un ultimo lascito che cambia tutto. È questo il cuore del processo che si sta tenuto al Tribunale di Ivrea, dove si intrecciano denaro, solitudine e potere d’influenza. La protagonista è una donna canavesana, nata negli Stati Uniti nel 1925 e tornata in Piemonte dopo una vita oltreoceano. Alla sua morte, il 22 agosto 2021, a 96 anni, ha lasciato un patrimonio di oltre due milioni e mezzo di euro: immobili, conti, titoli e un autolavaggio. Ma a sconvolgere gli equilibri familiari non è stata la cifra, bensì la destinazione finale dei beni.
Negli ultimi mesi di vita, la donna aveva riscritto più volte il testamento, otto volte in un solo anno, fino a firmare — poco prima del decesso — un documento che lasciava tutto a un avvocato, mai nominato prima come erede. Quell’uomo, che l’aveva assistita in alcune cause di sfratto, oggi è imputato per circonvenzione d’incapace, accusato di aver approfittato della sua condizione di fragilità.
Secondo la pm Valentina Bossi, il legale avrebbe “abusato dello stato di infermità e deficienza psichica della signora per indurla a sottoscrivere un testamento a suo vantaggio”. Le parti civili, sei in totale e rappresentate dall’avvocato Pierpaolo Piolatto, sostengono che l’anziana, già seguita da un amministratore di sostegno, fosse incapace di comprendere appieno la portata delle proprie decisioni: “Un rapporto di sudditanza totale” — si legge negli atti — “ha compromesso la libertà della testatrice”.
La difesa, invece, ribalta la prospettiva. L’avvocato Ferdinando Ferrero, che rappresenta l’imputato, porta in aula perizie e documenti medici che attesterebbero la piena lucidità mentale della donna fino agli ultimi giorni. Una visita geriatrica del 2020, avvenuta appena sei giorni prima dell’ultima modifica testamentaria, confermerebbe la sua capacità di gestire in autonomia le questioni patrimoniali. A ciò si aggiunge un video, girato diciotto giorni prima della morte, in cui l’anziana “dichiara spontaneamente che l’avvocato è il solo padrone della casa”, convalidando così il contenuto del testamento.
Il processo ruota attorno a una domanda cruciale: quando la fragilità diventa incapacità? E fino a che punto la solitudine può rendere vulnerabile una persona anziana, anche se apparentemente lucida? La circonvenzione d’incapace, del resto, è uno dei reati più difficili da provare: non basta l’età, serve dimostrare un abuso concreto, un’influenza diretta capace di alterare la volontà della vittima.
La decisione del tribunale di Ivrea non riguarderà solo case, conti e autolavaggio, ma potrà ridefinire il confine tra tutela e libertà personale nelle successioni contestate. Per i familiari, otto testamenti in un anno e un’eredità interamente assegnata a un estraneo sono il segno di un condizionamento; per la difesa, invece, sono la prova di una scelta lucida, coerente e ribadita nel tempo.
Sul fondo resta la fotografia di un’Italia che invecchia, dove la solitudine degli anziani e il potere dei professionisti creano zone d’ombra sempre più difficili da illuminare. L’aula di Ivrea diventa così il palcoscenico di una vicenda che va oltre la cronaca giudiziaria: un caso che interroga la società su quanto siamo disposti a credere alle ultime volontà di chi, alla fine della vita, decide di cambiare tutto.
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