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Cronaca

'ndrangheta. Arrestato a Volpiano Luigi Marando per traffico di cocaina. E con lui altri 14...

Nel blitz antimafia di Milano finisce anche Luigi “Gino” Marando, figlio del boss Pasquale “Pasqualino” Marando. Nelle carte dell’inchiesta: minacce di morte, chat criptate firmate “Dsquared2” e una rete di narcotrafficanti collegata al clan Barbaro di Platì

'ndrangheta. Arrestato a Volpiano Luigi Marando per  traffico di cocaina. E con lui altri 14

'ndrangheta. Arrestato a Volpiano Luigi Marando per traffico di cocaina. E con lui altri 14

Una «serie di delitti di spaccio all’ingrosso», organizzata con precisione militare e ruoli ben definiti. È la formula usata dagli inquirenti per descrivere l’attività del gruppo criminale smantellato dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, un network di narcotrafficanti collegato alla ’ndrangheta della Locride e in particolare al clan Barbaro di Platì. Tra i quindici arrestati figura anche Luigi Marando, classe 1989, di Volpiano (Torino), nome pesante nella storia delle cosche calabresi trapiantate in Piemonte e figlio dello storico boss Pasquale “Pasqualino” Marando, il capo della “locale” che negli anni Novanta fu protagonista della sanguinosa faida di Volpiano.

In questa inchiesta, Luigi, per tutti “Gino”, Marando, «minaccia di scannare due persone che non hanno pagato della cocaina», si muove disinvolto tra Volpiano e Leini, territori già governati dal papà. Il suo nickname nelle chat criptate è “Dsquared2”, e i messaggi che invia lasciano poco spazio ai dubbi: «La fame — scrive citando una storia sui lupi che avevano tradito il branco per trovare cibo più facilmente — scompare, ma la dignità, una volta persa, non torna più indietro».

Secondo l’ordinanza firmata dal gip milanese, le indagini sono partite da alcune intercettazioni che hanno svelato l’operatività del gruppo satellite del clan Barbaro, coordinato dal narcotrafficante internazionale Antonio Rosario Trimboli. Un uomo chiave, che gli inquirenti definiscono «elemento di raccordo» con gli esponenti delle famiglie calabresi della Jonica presenti tra le province di Milano e Pavia, attive nella commercializzazione di cocaina sulle piazze del Nord Italia.

Trimboli, insieme ai referenti di altre famiglie di ’ndrangheta impegnate nel narcotraffico, avrebbe messo in piedi — tra il 2020 e i primi mesi del 2021 — una formazione calabrese specializzata nell’acquisto di grandi quantitativi di droga da immettere sul mercato lombardo.

All’alba di martedì 14 ottobre, gli uomini del Servizio Centrale di Investigazione sulla Criminalità Organizzata della Guardia di Finanza hanno eseguito quindici misure cautelari: dodici in carcere e tre ai domiciliari.
In carcere sono finiti: Barbaro Antonio (classe 1969), Bartiromo Simone (1991), Bruzzaniti Bartolo (1975), Caravaglia Salvatore (1979), Caruso Antonio (1990), Grillo Giuseppe (1974), Marando Luigi (1989), Papalia Michele (1981), Perre Antonio Santo (1989), Reale Calafino Ivan (1980), Varacalli Francesco (1986) e Varacalli Giuseppe (1984).
Ai domiciliari: Caruso Francesco (1992), Papalia Domenico (1983) e Sergi Cosimo Damiano (1994).

Il gip parla di un’attività di spaccio inserita in un’«operatività rodata e professionale», fondata su un’intesa preventiva e su una «chiarissima suddivisione di ruoli». Il gruppo, infatti, disponeva di telefoni criptati, luoghi di stoccaggio per la droga e basi logistiche ben definite. L’abitazione di Antonio Santo Perre era dotata di un vano dedicato a nascondere la cocaina, oltre a un «non meglio precisato box» nei pressi di via del Perugino a Trezzano sul Naviglio. Un’organizzazione vera e propria, capace di agire con metodo e silenzio.

Figura centrale del gruppo, secondo le carte, è Giuseppe Grillo, pluripregiudicato noto sulla piattaforma SkyEcc con i nickname “Pedro” e “Putin”. Dalle chat criptate emerge il suo legame diretto con Trimboli (“Malverde” e “Santa Cruz”) e con il socio Antonio Gullì. In una conversazione del gennaio 2021, si fa riferimento alla vendita di 100 chilogrammi di cocaina da parte dell’organizzazione di Trimboli a Grillo. Accanto a loro, il cugino Francesco Caruso, che — scrivono gli inquirenti — svolgeva la funzione di «custode e collettore del denaro provento delle cessioni e di tenutario della contabilità».

Gli “acquirenti stabili” individuati dalla procura sono sette: Antonio Barbaro, Francesco Varacalli, Giuseppe Varacalli, Simone Bartiromo, Luigi Marando, Michele Papalia e Salvatore Caravaglia. Tutti, sottolinea l’ordinanza, accomunati «dalla particolare fiducia riposta da Giuseppe Grillo nella loro affidabilità e nella loro caratura criminale», una fiducia che nasce «da connotati familiari o di clan». Tra questi, i due più tenuti in considerazione erano proprio Luigi Marando e Michele Papalia: il primo, come Grillo, legato da vincoli di sangue con importanti famiglie di ’ndrangheta; il secondo, discendente del medesimo clan familiare, molto vicino a Grillo.

Altro elemento di vertice del gruppo sarebbe Domenico Papalia, indicato come «organizzatore oltre che supporto finanziario del sodalizio», in grado di interloquire alla pari con Grillo e di svolgere la funzione di promotore, finanziatore e consigliere dell’associazione.

Le indagini della Dda di Milano, coordinate dal pm Gianluca Prisco e condotte dal Gico del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza, hanno ricostruito un traffico internazionale di droga dal Sudamerica che, in poco più di un anno, avrebbe movimentato cocaina per oltre 18 milioni di euro. La rete, spiegano gli investigatori, operava tra Lombardia e Calabria, utilizzando sofisticati sistemi di messaggistica criptata e sfruttando contatti diretti con gruppi camorristici e organizzazioni albanesi, con ramificazioni fino al Nord Europa e al Sud America.

Determinante, secondo la procura, è stata l’acquisizione — tramite Europol e Ordine Europeo d’Indagine — di numerose conversazioni decodificate dai dispositivi SkyEcc, grazie alle quali è stato possibile documentare il sistema di pagamento attraverso il “fei ch’ien”, un metodo di compensazione informale che consente di trasferire denaro in modo invisibile.

Il procuratore di Milano Marcello Viola ha spiegato che l’operazione ha rivelato «l’esistenza di un saldo rapporto tra rappresentanti delle ’ndrine Papalia-Carciuto, Marando-Trimboli e Barbaro ’U Castanu, e un gruppo criminale di matrice camorristica, satellite del clan Di Lauro di Napoli». Tutti gli arrestati, sottolinea Viola, «sono legati ad ambienti di criminalità organizzata, diversi dei quali già arrestati in passato per narcotraffico e associazione mafiosa».

Perquisizioni sono tuttora in corso nelle province di Milano, Pavia e Reggio Calabria, con l’ausilio di unità cinofile antidroga e “cash dog” specializzate nella ricerca di denaro contante.

A Volpiano, intanto, il nome Marando torna a pesare come una sentenza. Quella stessa famiglia che, trapiantata da Platì nel Canavese, costruì negli anni un impero economico, subì confische, vide cadere i propri capi ma mai spegnersi il legame con la terra d’origine. E ora, con Luigi “Gino” Marando, alias “Dsquared2”, di nuovo al centro di un’inchiesta internazionale, la storia della “locale di Volpiano” sembra riprendere da dove si era interrotta: tra carichi di cocaina, chat criptate e una fedeltà di clan che attraversa generazioni e continenti.

Il Pablo Escobar d'Italia

Era la metà degli anni Settanta e il mondo stava cambiando, ma Platì — minuscolo avamposto della Locride — restava immobile. Lì, la legge non era quella dello Stato ma quella degli uomini che allo Stato si sostituivano. I sequestri di persona avevano riempito le tasche della ’ndrangheta di denaro contante: una ricchezza improvvisa, in attesa di trovare la sua strada. Pasquale Marando, a differenza di molti, capì che il futuro non era nel riscatto, ma nella polvere bianca.

marando pasquale

Giovane, determinato e silenzioso, Marando fu il primo a intuire che i sequestri erano il passato e la droga il futuro. Mentre i boss siciliani di Cosa Nostra si spartivano le rotte dell’eroina, Marando osservava e studiava. L’eroina, droga dei disperati, aveva già saturato l’Europa. Ma dall’altra parte dell’oceano, un colombiano chiamato Pablo Escobarstava dimostrando che la cocaina poteva trasformarsi in un impero. Marando comprese che quella era la via.

Non si limita a comprare dai siciliani: fa di testa sua. Mentre altri si accontentano dei residui di Cosa Nostra, lui attraversa l’oceano, letteralmente. È il primo calabrese a spingersi fino in Colombia, dove la foresta odora di benzina e cloridrato, per parlare direttamente con i produttori. Si presenta come un uomo d’affari: educato, preciso, concreto. Non tratta più per conto di altri — tratta per sé e per la sua famiglia.

Da lì nasce la leggenda del “Pablo Escobar d’Italia”.

A differenza del colombiano, Marando non ama apparire. Non ville sfarzose, non feste, non fotografie. Solo bunker. Chilometri di cunicoli scavati nella roccia, botole a scomparsa, passaggi segreti sotto le case di Platì. Un labirinto pensato per nascondersi e per stoccare tonnellate di cocaina e di eroina. Mentre gli altri boss muoiono di ostentazione, lui costruisce una città sotterranea.

Quando negli anni Ottanta Cosa Nostra inizia a traballare, Marando è già pronto. Ha capito che la vera forza non sta nei clan più rumorosi, ma nei canali finanziari, nelle alleanze internazionali e nei broker invisibili. Sceglie i migliori. Tra questi, un uomo dallo sguardo freddo e la voce bassa: Sebastiano Saia, consulente finanziario di origini siciliane, esperto di banche offshore e conti cifrati. È lui il cervello economico del gruppo, l’uomo che trasforma i bidoni di contanti sepolti sotto terra in capitali puliti da reinvestire.

Saia tratta con turchi, pakistani e svizzeri. Parla di “bestie” e di “funghi” per indicare chili di droga. È l’interprete perfetto di un impero che si muove fra Calabria, Milano e Londra. L’operazione “Riace”, condotta dai Carabinieri e da Scotland Yard, lo individua come il contabile del clan; lo arrestano a Brighton nel 1994, seguendo la scia di un carico da 500 kg di eroina. Ma il vero motore resta Pasquale Marando.

Villa marando

Villa Marando

Il suo modello è semplice e geniale: compra la cocaina in Colombia, la fa arrivare in Spagna o in Inghilterraattraverso rotte sicure e la smista in tutta Europa. Per l’eroina si affida ai pakistani Hafeez, una famiglia che ufficialmente commercia tappeti a Londra ma che in realtà è una centrale operativa del narcotraffico internazionale.

Le stime parlano di almeno 35 milioni di euro accumulati in pochi anni. I soldi, però, non servono per ostentare: servono per costruire nascondigli, per comprare silenzi, per garantire la sopravvivenza del clan. Marando non è mai un boss da copertina. Non rilascia interviste, non cerca visibilità, non vuole il potere politico. Vuole solo una cosa: il controllo assoluto del mercato.

Saia viene arrestato nel 1994 in una pizzeria di Brighton, Marando resta invisibile e continua a muovere le sue pedine. In pochi anni diventa il riferimento della ’ndrangheta internazionale: tratta da pari a pari con turchi e colombiani, con un linguaggio d’affari, non da criminale. «Io porto il prodotto in Europa, voi garantite la fonte» — questo è il suo patto.

Le sue operazioni finanziarie passano da Gibilterra, dove i contanti vengono lavati e rimessi in circolo. I proventi finiscono in terreni agricoli, in società fittizie, in conti anonimi. Con l’aiuto di Saia, i capitali vengono ripuliti e reinvestiti in mezzo mondo: dall’Inghilterra alla Turchia, dalla Grecia a Cipro. Quando Saia ricade in una truffa nel 2016, il sistema è già stato perfezionato da decenni.

Insomma, Pasqualino non è un boss qualunque. È un uomo d’ordine, capace di tenere insieme la tradizione calabrese e la modernità criminale del Nord. Volpiano, dove ha deciso di vivere, diventa la frontiera settentrionale della ’ndrangheta di Platì, intrecciando rapporti con i Papalia, i Sergi, i Barbaro, e costruendo canali che dal Canavesearrivano fino a Milano, Genova, Roma e oltre.

Negli anni Novanta, il potere dei Marando esplode — e con esso la faida di Volpiano, la più sanguinosa mai avvenuta nel Nord. Una guerra di famiglia tra i Marando e gli Stefanelli, innescata da un matrimonio “maledetto” che unisce e divide i clan. Per anni la cronaca piemontese si riempie di sparizioni, imboscate e vendette. I pentiti raccontano di uomini fatti sparire, di corpi bruciati, di esecuzioni pianificate nei boschi della Vauda. Di alcuni non si trova mai nulla: cadaveri inghiottiti dalla terra, sepolti nelle Vaude, in quello che gli investigatori chiamano il cimitero della ’ndrangheta.

Il 1996 segna uno spartiacque: il ritrovamento del corpo carbonizzato di Francesco Marando, parente diretto di Pasquale, ucciso e dato alle fiamme a Chianocco, in Val di Susa. Una scena brutale, destinata a diventare l’emblema della guerra. Da quel momento la faida si spegne lentamente, non per pacificazione ma per esaurimento: troppi morti, troppi dispersi, troppa paura.

Eppure, mentre il sangue si asciuga, gli affari continuano. Pasqualino resta il punto di riferimento, l’uomo capace di parlare con tutti, dal Canavese ai cartelli sudamericani. Ma anche per lui, la lunga scia di sangue ha un epilogo.

Il 27 gennaio 2002, Pasquale Marando scompare nel nulla. Invitato a Platì per una cena che deve suggellare la pace tra le famiglie, finisce in una trappola. Gli inquirenti ritengono che sia stato ucciso durante quella serata, vittima di un regolamento di conti interno alla ’ndrina. Il corpo non è mai stato ritrovato. Da allora, la sua morte diventa uno dei misteri della ’ndrangheta: una “lupara bianca” perfetta, senza testimoni, senza cadavere, senza confessioni.

Secondo le inchieste della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, il delitto è orchestrato da membri della stessa cerchia calabrese, in particolare da esponenti delle famiglie Trimboli e Barbaro, per ridimensionare il potere dei Marando nel traffico internazionale di droga. Un processo in abbreviato porta a cinque condanne a trent’anni, ma in appello quattro imputati vengono assolti e una sola condanna è confermata in Cassazione. Nessuna certezza, nessun corpo, solo un’assenza che pesa ancora come una sentenza.

L’omicidio di Pasqualino, l’uomo che ha portato la ’ndrangheta nel Piemonte industriale, segna la fine di un’epoca. Ma non della sua eredità. Dopo di lui, la famiglia non si dissolve: si ricompone, si reinventa, torna a investire e a comandare nell’ombra.

Finita la stagione dei kalashnikov, comincia quella dei conti correnti. I Marando investono, diversificano, si inseriscono nei traffici di cocaina e hashish, nei giri di riciclaggio, negli investimenti immobiliari. A Volpiano la loro presenza si può toccare con mano: ville, capannoni, società di comodo. La più nota è quella di via Buonarroti 32, confiscata nel 2023. Un gesto concreto che spezza la narrazione della mafia invisibile: quella villa esiste, e apparteneva ai Marando.

Ma la storia giudiziaria della famiglia è lunga, fatta di condanne e assoluzioni, di faide e archiviazioni. Nel 2014, la Corte d’Appello di Torino assolve Rosario e Luigi Marando (figlio di Pasquale) dall’accusa di riciclaggio legata all’eredità del boss, dopo una condanna in primo grado. La sentenza ribaltata — “il fatto non sussiste” — segna un momento di svolta: per la prima volta, un processo sui beni dei Marando si chiude senza colpevoli. Ma la loro ombra resta.

Perché mentre la giustizia archivia un capitolo, se ne apre un altro. Le inchieste successive — da “Crimine-Infinito” a “Platinum” — descrivono un’organizzazione viva, evoluta, radicata nel tessuto economico del Nord-Ovest. Una rete che controlla appalti, distribuzione di droga, flussi di denaro e consenso. E a ogni nuova indagine, quel cognome ritorna. Sempre.

L’ultimo capitolo porta la firma della DDA di Milano e del procuratore Marcello Viola. È l’operazione che smantella un vasto traffico di cocaina tra Lombardia, Piemonte e Calabria. Per gli inquirenti, “Luigi ’i Pascalino” (Luigi di Pasquale) è uno degli “acquirenti stabili” della droga gestita dal narcotrafficante Antonio Rosario Trimboli, uomo di raccordo tra la ’ndrina calabrese e i clan Barbaro, Papalia e persino una costola del gruppo camorristico dei Di Laurodi Napoli.

Non è un caso isolato. È una continuità. Da Pasqualino, il boss che fonda la locale e sparisce senza lasciare corpo, a Francesco, ucciso e carbonizzato; da Rosario, coinvolto nei processi di riciclaggio, a Luigi, protagonista delle indagini più recenti: ogni generazione lascia un segno nella storia della mafia calabrese al Nord. E ogni volta, il nome Volpianotorna a indicare qualcosa di più di un semplice comune.

Oggi, dietro i capannoni e le villette di questa città, resta la memoria di sparizioni mai chiarite, di cadaveri mai ritrovati, di soldi che hanno cambiato volto ma non provenienza. Gli investigatori lo sanno: la “locale di Volpiano” è stata e resta una delle articolazioni più longeve della ’ndrangheta fuori dalla Calabria. Ha imparato a mimetizzarsi, a non sparare più, a investire e a reinvestire. Ma non ha mai smesso di esistere.

Perché la storia dei Marando non è finita: ha solo cambiato indirizzo, linguaggio e strumenti. E ogni volta che la magistratura apre un fascicolo o scatta una foto a un portone sequestrato, la linea che unisce Platì e Volpiano torna a farsi visibile. Una linea tracciata da decenni di violenza, denaro e silenzi.

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